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"La crisi stringe le giovani famiglie" di Melania Di Giacomo

Solo 3 su 10 risparmiano. Lavoro, ripresa difficile: nel 2011 previsti 88.000 posti in meno. Sono le difficoltà dei trentenni a trovare lavoro, a mettere da parte un po’ di soldi e a trovare casa, in sostanza a costruire una famiglia che possa resistere agli alti e bassi, il segno più evidente della crisi. Solo 3 giovani famiglie su 10 riescono ad accumulare qualche risparmio, il 58% — dice un’indagine di Censis e Unipol — spende tutto il proprio reddito mensile, e il 5% è costretto a indebitarsi. Il 28,6% dei capofamiglia fino a 35 anni indica di essere riuscito a mettere da parte qualcosa, e il 22% possiede solo la casa dove abita. E a proposito di condizioni abitative, oltre il 40% delle famiglie giovani vive in una casa in affitto. Segno delle difficoltà di una generazione, perché se la cavano meglio i quarantenni e i cinquantenni: «Il 38% riesce a risparmiare», mentre in media la prima casa è una sicurezza per il 40% delle famiglie. Le più giovani sono quelle che in numero maggiore spendono tutto il loro reddito mensile (il 58,4% contro la media del 52,5%) e che sono costrette a indebitarsi (il 5% contro la media del 3,7%).
A fare il paio con questi dati che parlano di un’economia in sofferenza, «l’emorragia» di posti di lavoro. Nel 2011, secondo Unioncamere, la bilancia tra quelli creati e quelli che invece vanno in fumo pende ancora verso i secondi: il risultato è 88 mila posti di lavori in meno, con un calo dell’occupazione dipendente dello 0,7%, ancora in perdita dopo il meno 1,5% del 2010 e il meno 2%, con 213 mila posti di lavoro persi nel 2009, anno nero della crisi. E le previsioni da qui alla fine dell’anno non lasciano sperare in meglio: «L’industria va verso un autunno incerto, sono fermi commercio e servizi». Questa la sintesi dell’indagine congiunturale dell’Unione delle Camere di Commercio. «Anche a causa dell’accresciuta incertezza sull’intensità della ripresa internazionale e le forti tensioni sul debito nella seconda metà dell’anno», deduce: «L’inversione di tendenza non sembra essere alle porte soprattutto per il settore industriale».
Nel 2011 — prevede il centro studi — ci saranno quasi 44 mila ingressi nel mondo del lavoro in più rispetto al 2010, ma saranno comunque inferiori alle uscite. Va male il manifatturiero, ma soprattutto le costruzioni (calo degli occupati del 2,5%). Nel totale i due settori avranno a fine anno una perdita stimata in quasi 59 mila unità (-1,2%). I servizi dovrebbero fermarsi a quota meno 29 mila posti (-0,4%). Quelli che più risentiranno del calo di occupazione sono alberghi, ristoranti e servizi turistici, con flessioni dell’1%, mentre nel commercio i livelli occupazionali sono stazionari(-0,2%), ma nel settore si registra un -1,5% delle vendite nel secondo trimestre dell’anno.
Se si è piccoli si soffre di più: saranno, infatti, 41 mila i posti in meno nelle imprese fino a 9 dipendenti, dato che — si spiega — conferma la tendenza dello scorso anno. In confronto le imprese con oltre 250 dipendenti perderanno 7.600 posti.
E se il Centro-Nord piano piano rialza la testa, il Sud «appare ancora in grande affanno». Il Nord-Ovest, infatti, ha in programma una contrazione di oltre 19 mila posti di lavoro (-0,5%), il Nord-Est di 10.600 (-0,4%), il Centro di 16.600 (-0,7%). Al Sud, al contrario, i posti di lavoro in meno dovrebbero essere oltre 41 mila (-1,6 %). A provocare queste ulteriori difficoltà del mercato del lavoro nel Meridione sono soprattutto le previsioni negative delle piccole e piccolissime imprese dell’area (ovvero quelle con meno di 50 dipendenti), il cui saldo a fine anno dovrebbe superare le 28 mila unità in meno.
In questo quadro fosco c’è anche un dato positivo: nei servizi avanzati le imprese prevedono di aumentare di circa 1.500 unità i propri dipendenti, con un tasso di crescita, quindi, dello 0,4%.

Il Corriere della Sera 21.08.11

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“Occupazione, autunno nero. Altri 88mila posti in fumo”, di Felicia Masocco

Meno di un mese fa il centro studi di Confindustria diffondeva un’indagine sull’occupazione che definiva «depressa», incapace di rialzare il capo, per nulla stimolata dalla ripresina, quei pochi decimali di crescita del Pil in cui tanti avevano riposto troppa (strumentale) fiducia. I dati (più licenziamenti, meno assunzioni, più contratti a termine, più cassaintegrazione) si riferivano infatti al 2010, anno della “ripresina”ma anche dell’«onda lunga della crisi», quella iniziata nel 2008.
CRISI SU CRISI Ora se ne affaccia un’altra, lo indicano le turbolenze sui mercati finanziari, i tagli alle previsioni di crescita dell’economia globale, alla parola recessione che torna nei pronostici statunitensi. Quanto all’Italia, per l’Istat il Pil a fine anno segnerà +0,7%, più basso del +1,1% indicato dal governo del Def. Certo non aiuterà la manovra depressiva del governo in cui non c’è traccia di investimenti, che taglia la spesa pubblica (posti di lavoro compresi), che assottiglia il potere d’acquisto di intere categorie: non porterà crescita dicono gli analisti. E senza crescita non può esserci nuova occupazione. Né si recupera quella persa. Arriva un’onda quando l’altra non è ancora rientrata e l’Italia non si è data neanche un salvagente. Lo dice il rapporto Unioncamere, ultimo in ordine di tempo di una lunga lista di report univoci nel descrivere il lavoro che non c’è. Ai 2milioni di disoccupati contati in giugno dall’Istat altri se ne aggiungeranno fino alla fine dell’anno che chiude con meno 88mila posti nelle aziende con almenoun dipendente. L’occupazione calerà quindi dello 0,7%, meno della discesa dell’1,5% del 2010 ma ancora in perdita. Soprattutto nell’industria che secondo le stime dell’ultimo bollettino di Bankitalia chiuderà il 2011 con un calo degli occupati dell’1% dopo il -2,2 del 2010. Non si vedono spiragli, è questo che preoccupa. «Per l’incertezza della crescita internazionale un’inversione di tendenza non sembra essere alle porte, soprattutto per il settore industriale», argomenta l’unione delle Camere di commercio. L’industria ha pagato cara la crisi e l’assenza di politiche per contrastarla. Al ministero per lo Sviluppo pendono 187 tavoli di crisi: sono aziende che licenziano, ristrutturano, falliscono o tentano di resistere parcheggiando migliaia di lavoratori in cassa integrazione. Sono 223mila i lavoratori coinvolti e di questi, secondo la Cgil, 57 mila rischiano molto seriamente di rimanere a spasso. Scorrendo la lista si incontrano nomi arcinoti tanto è annosa la loro vertenza: Antonio Merloni, Vinyls, Lucchini, Eurallumina, Agile-Eutelia, Videocon, Omsa, Eaton e alcuni addentellati Fiatcome Irisbus o Termini Imerese che a fine anno chiude e non si sa con quale prospettiva. Sorprende ritrovarle ancora aperte dopo due, tre anni di tavoli apparecchiati. E questa è solo la punta dell’iceberg, perché al ministero non arrivano le crisi delle piccole e medie imprese, ossatura del nostro sistema produttivo.
GLI SCORAGGIATI, UN ESERCITO Un altro indicatore: sono mezzo milione, secondo l’osservatorio della Cgil, gli uomini e donne che usufruiscono degli ammortizzatori sociali dall’inizio dell’anno, 380mila di loro sono in cig straordinaria o in deroga. Da gennaio i loro redditi si sono assottigliati di 4.600 euro. E restando in tema ammortizzatori, non si può non parlare dei precari: dei 200 milioni stanziati per dare un’indennità a chi si ritrovava disoccupato, ben170 sono rimasti nelle casse dello Stato tanto erano severi i requisiti per accedervi fissati dal governo. È noto che la maggioranza dei precari sono giovani e che l’Italia è terza in Europa per disoccupazione giovanile, dopo Spagna e Slovacchia (fonte Eurostat). La media Ue è del 20,3%, l’Italia è al 27,8 dopo aver sfiorato il 30%. Prospettive? Poche data l’aria che tira. E i primi a esserne convinti sono loro, parte maggioritaria di quell’esercito di scoraggiati, 1milione e mezzo, che nel 2011 ha smesso di cercare lavoro perché ritengono impossibile trovarlo. Si tratta di un fenomeno che dilaga nel Sud e tra le donne. A confronto con il 2004, primo anno per cui sono disponibili i dati, le persone che dichiarano di non essere a caccia di un’occupazione perché tanto non la trovano sono aumentate del 50 per cento. E, tra l’altro,non vengono calcolati tra i disoccupati, ma fanno parte degli inattivi, ovvero delle persone in età lavorativa che non hanno e non cercano un impiego. E l’autunno non è ancora iniziato.

L’Unità 21.08.11

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«Crisi gravissima Governi incapaci di trovare soluzioni», intervista a Luciano Gallino di Massimiliano Amato

La catastrofe s’allarga, professor Gallino. E lei,naturalmente, non è per niente sorpreso. Giusto?
«Era inevitabile. Sarei quasi tentato di affermare che il rapporto Unioncamere non ci dice nulla che già non sapessimo. Il crollo dell’occupazione è un ulteriore effetto della totale inefficacia delle politiche per il lavoro, non solo italiane, ma europee». Luciano Gallino, sociologo del lavoro, risponde dalla sua casa di Parigi, dove si è ritirato a scrivere un’altra delle sue analisi sugli effetti della finanziarizzazione esasperata dell’economia, alla base del default dell’Occidente.
Vede spiragli?
«Nell’immediato no. Il tracollo coinvolgerà sempre di più tutto il continente. Per il momento, ne resta fuori la sola Germania, che riesce a mantenere stabile il saldo tra disocuppati, inoccupati e occupati. Ma lo fa a spese degli altri paesi».
Un’opera di cannibalizzazione?
«Infatti. I tedeschi esportano moltissimo, a scapito della produttività altrui. In Italia, in Francia e nel resto d’Europa la contrazione produttiva porta al taglio della manodopera. E alla delocalizzazione».
E quindi era già tutto previsto?
«Siamo nel pieno di una crisi gravissima, e non lo scopro io. Questa è la terza ondata del default che ha colpito l’economia finanziarizzata: la prima nel 2001, la seconda nel 2007-2008, la terza oggi. A tenere insieme le tre fasi, c’è la sostanziale incapacità
dei governi, non solo quello italiano, ad individuare il nucleo centrale di questa crisi, e a predisporre politiche adeguate».
Quanto durerà quest’agonia?
«Molto, temo. La fine del mondo globalmente finanziarizzato sarà lunga e dolorosa. In Europa sono esplose le contraddizioni che sono alla base del processo di integrazione».
L’Europa dei banchieri che ha relegato in un angolo quella della politica.
«Più corretto dire che un’impostazione ha prevalso sull’altra. Sulle politiche del lavoro, oltre alle enormi responsabilità dei governi ha influito il ruolo negativo svolto dalla Banca centrale».
Cioè?
«La Bce ha come principale compito statutario la difesa della stabilità dei prezzi: si tratta di un suicidio economico. È un limite istituzionale enorme, perché impedisce alla principale istituzione finanziaria di sostenere la crescita e l’occupazione. La Bce dovrebbe
fare quello che fanno la Banca d’Inghilterra o la Federal Reserve, nei cui Statuti c’è, innanzitutto, la difesa di lavoro e sviluppo ».
Tutto da rifare, quindi?
«Più o meno sarebbe così, ma non mi faccio illusioni: ci scontriamo
con l’ottusa insistenza dei monetaristi alla Trichet e con l’incapacità
mostrata dai politici europei a farsi promotori di una modifica statutaria».
E l’Italia?
«È il Paese con i problemi più acuti:
non avendo una politica industriale uscirà peggio di tutti gli altri da questa crisi».
Ci sarebbe il settore auto.
«Io penso che l’età dell’auto sia finita, o debba finire presto. Ma poi, nel quadro attuale, con le 600mila vetture che produciamo ogni anno pensiamo di concorrere con la Germania che ne produce 5 milioni e mezzo? Le banche dei lander hanno sostenuto la crescita del settore. Il resto l’hanno fatto gli accordi con i sindacati che, pur pagando un prezzo elevato, sono riusciti a ridurre l’emorragia».
In Italia, invece, un prezzo altissimo i lavoratori lo pagano a prescindere.
«Le ultime proposte di Sacconi riportano indietro l’orologio della Storia. Una beffa di cattivo gusto. E poi, come si fa a contrattare i salari in base alla produttività delle singole aziende, se lo schema fordista della fabbrica unica è completamente saltato? E poi: si mette mano allo Statuto nel momento peggiore. Tutto ciò è possibile perché la crisi indebolisce molto i sindacati, che sono
sotto attacco da trent’anni».
Dovrebbero cambiare pelle anche loro?
«C’è qualcosa da aggiornare, nel senso di una maggiore internazionalizzazione della loro azione. Vicende come quella di Pomigliano si sono potute concludere in un certo modo perché nel mondo ci sono un miliardo di lavoratori a cui le condizioni di Marchionne stanno bene. Il problema è portare i lavoratori del terzo mondo ai livelli del primo. Obiettivo possibile solo con una dimensione sovranazionale dell’azione sindacale».

L’Unità 21.08.11