attualità, politica italiana

"Metà parlamentari, Veltroni incalza", di Rudy Francesco Calvo

Dimezzare il numero dei parlamentari? Sulla carta (soprattutto quella dei giornali) tutti si dicono d’accordo. Né a Montecitorio né a palazzo Madama, però, sono state ancora depositate proposte di legge così nette. Non ne ha presentate il governo, dopo che Berlusconi ha annunciato in pompa magna, lo scorso 22 luglio, un disegno di legge costituzionale che avrebbe dovuto comprendere questa e altre misure rivolte a ridurre i costi della politica. Non lo ha fatto, alla lettera, nemmeno il Pd. Ma su questo ci soffermeremo dopo.
A tornare alla carica sono stati ieri Sergio Romano, con un editoriale sul Corriere della Sera, e Walter Veltroni, con una lettera inviata ai capigruppo dem di camera e senato.
Il primo lega la necessità di dimezzare il numero dei parlamentari al sentimento di antipolitica diffuso nel paese, ritenendo necessario «un pacchetto di misure che serva a spegnere i sentimenti di rabbia e disprezzo che molti italiani provano per i loro rappresentanti». L’ex segretario del Pd, invece, lo ritiene «essenziale non solo per ridurre il peso improprio della politica, ma per ridare capacità di velocità e di decisione alla democrazia», ingessata da «una macchina politico- istituzionale troppo lenta e pesante per una società veloce e dinamica come quella in cui viviamo ». Veltroni chiede quindi ai Democratici di porre questa misura come condizione per il proprio voto per la modifica dell’articolo 81, con l’introduzione in Costituzione del pareggio di bilancio strutturale. Un modo per accelerare e mettere alle strette la maggioranza, intestando al contempo al Pd una battaglia di grande popolarità. E che porterebbe immediatamente dopo alla necessità di mettere mano anche alla legge elettorale, superando il porcellum.
Non è la prima volta che Mo- Dem spinge su questo tasto.
D’altra parte, lo stesso Pier Luigi Bersani ha fatto propria questa proposta a nome del partito, citandola esplicitamente nel corso dell’audizione parlamentare del ministro Tremonti a Montecitorio lo scorso 11 agosto. Per Veltroni, però, ora è arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. E chiede di farlo direttamente ai vertici dei gruppi di camera e senato. Anna Finocchiaro garantisce: «Il Pd, quando comincerà la discussione sulla manovra, sosterrà questa proposta con atti parlamentari concreti ». Dario Franceschini ricorda che «sono depositati da inizio legislatura due proposte di legge del Pd per il dimezzamento del numero dei parlamentari».
In realtà, i dem finora sono rimasti più cauti. Il testo presente alla camera (prima firmataria Sesa Amici) ipotizza un numero di 500 deputati e circa 200 senatori (il numero è da calcolare sulla base della popolazione delle regioni). Quello depositato al senato (primo firmatario Luigi Zanda) prevede invece 400 deputati e 200 senatori. E Luciano Violante, responsabile del Pd per le riforme, ipotizza un sistema con circa 500 rappresentanti alla camera e 250 al senato. Non proprio un dimezzamento, quindi, ma comunque una sostanziale riduzione, che finora a destra non hanno preso in considerazione.
Anzi, proprio a palazzo Madama la maggioranza ha respinto già nel 2009 la richiesta di calendarizzazione immediata della proposta dem. Ora il Pd vuole tornare alla carica.
È evidente che un qualsiasi ritocco del numero dei parlamentari inciderà sulla rappresentanza dei singoli partiti nella prossima legislatura. Se si considerano attendibili gli ultimi sondaggi pre-estivi, la vittoria di una coalizione Pd-Idv-Sel (con i dem intorno al 29 per cento) porterebbe a Montecitorio circa 230 democrat, contro i 206 attuali.
Dimezzare i parlamentari significa scendere intorno a quota 115, mentre diventerebbero circa 150 su 400 totali e 190 su 500.
Se si vuole arrivare a un intervento drastico, insomma, conviene mettere da parte la calcolatrice.

da Europa Quotidiano 20.08.11

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“Dimezzare i Parlamentari l’Idea Scuote il Palazzo”, di Alessandro Trocino

Veltroni: si può fare in 90 giorni. I dubbi del Pdl. L’idea è semplice: mandare a casa la metà dei parlamentari. Proposta che circola da tempo, solo che finora il dimezzamento dei parlamentari è sempre stato inserito nel quadro di una più complessiva riforma in senso federale dello Stato. Come ricordava ieri in un editoriale sul Corriere della Sera Sergio Romano, però, il tempo stringe: «Se la classe politica vuole dare un segno di attenzione per i malumori della società, le circostanze impongono misure più rapide e quindi un progetto di legge sottoscritto dal governo e da tutti quei settori della minoranza pronti ad approvarlo». Una proposta che ha avuto moltissimi consensi tra i lettori del sito del Corriere e contenuta anche in una lettera inviata da Walter Veltroni ai capigruppo del Pd. Ma l’idea dell’ex segretario del Pd trova sì con distinguo dall’Idv («non basta») e dall’Udc («la priorità va data all’abolizione delle Province») e molte resistenze nel Pdl.
Per Romano varare un provvedimento del genere subito «avrebbe tre effetti positivi: darebbe una risposta al Paese; dimostrerebbe che la riforma della Costituzione è una materia su cui maggioranza e opposizione possono lavorare insieme; direbbe agli speculatori che la nave Italia non ha alcuna intenzione di andare a fondo». Veltroni aggiunge un tassello all’editoriale di Romano. Non si tratta solo di approvare in fretta il dimezzamento dei parlamentari. Si tratta di usare questa proposta come «condizione» alla disponibilità dell’opposizione a concorrere alla revisione costituzionale sull’articolo 81. Per intenderci, quella che introdurrebbe l’obbligo del pareggio di bilancio nella Costituzione. Per l’ex segretario del Pd, vincolare le due materie aiuterebbe a trovare in fretta un consenso bipartisan, che porterebbe ad approvare in novanta giorni i due provvedimenti. Vantaggi del dimezzamento: meno costi e più velocità decisionale. Con Veltroni si schierano i due capigruppo del Pd, Dario Franceschini e Anna Finocchiaro, ai quali ha scritto una lettera. Enzo Bianco ricorda che il Pd ha chiesto, e ottenuto, la calendarizzazione in commissione Affari costituzionali del Senato dei disegni di legge sulla diminuzione dei parlamentari: «Per questo condivido pienamente le parole di Sergio Romano».
Ma l’opposizione è divisa. Pier Ferdinando Casini tocca un nervo scoperto del Pd, diviso sull’abolizione delle Province: «Meno parlamentari? Sono d’accordo, ma al Pd dico che si potrebbe cominciare ad abolire tutte le Province, visto che quando si è votato per questo non l’ha fatto». E l’Idv? Per Antonio Borghesi si può e si deve fare di più: «L’Italia dei Valori è più che favorevole al dimezzamento dei parlamentari. Ma la nostra battaglia non si ferma e per questo proseguiamo con la raccolta firme per abolire le Province e con le proposte per togliere privilegi. Dimezzare i parlamentari fa risparmiare un miliardo, ma solo se si riducono gli altri costi». Sì al dimezzamento arrivano anche da Italia Futura, il think tank di Luca Cordero di Montezemolo, e da Io Sud.
Nel centrodestra, le reazioni sono fredde. Enrico La Loggia ironizza: «Una proposta ottima quella del Pd. Peccato che il governo l’abbia concretizzata nel 2005, trovando l’opposizione della sinistra». Riferimento alla riforma costituzionale (che poneva fine al bicameralismo perfetto) varata e poi bocciata dal referendum popolare. Nella maggioranza, però, l’insofferenza per quella che Francesco Giro (Pdl) chiama «la demonizzazione» della Casta è palese. Per Gianfranco Rotondi, «il dimezzamento dei parlamentari è un’aspirina: la si dà quando non si sa che dire». Rotondi non ci sta a sentirsi «un mangiapane a tradimento» e rilancia: «Serve una riforma radicale: via le Province e ridurre le Regioni a otto». Gaetano Quagliariello è scettico: «Dimezzare i parlamentari? È una riforma da fare, ma non mi pare risolutiva e neanche la priorità». Il rischio, aggiunge, «è che si consolidi il bicameralismo perfetto». Per questo sarebbe preferibile «fare un ultimo tentativo per portare a termine una riforma più complessiva». E se non ci si riesce, «visto che questa diminuzione ha assunto valore simbolico, che la si faccia pure». Maurizio Gasparri è in scia: «A settembre ne discuterà il Parlamento e vedremo». Ma voi che farete? «Sarebbe più logico fare una riforma del Senato federale, ma visto che c’è un’ira popolare non saremo certo noi a dire di no per farci accusare di voler prender tempo».

Il Corriere della Sera 20.08.11

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“Meno di tremila euro al mese e il doppio lavoro si conserva”, di M. Antonietta Calabrò

Più che una norma ben scritta e prima ancora pensata, l’articolo 13 del decreto legge sulla manovra aggiuntiva entrato in vigore il 13 agosto, sembra una grida manzoniana, «una grida fresca» che «son quelle che fanno più paura», come commentava Azzeccagarbugli nel terzo capitolo dei Promessi Sposi. Ma che poi alla fine hanno poco effetto.
Il decreto prevede che, per deputati e senatori che svolgano attività che fruttino loro un reddito pari o superiore al 15 per cento dell’indennità della carica parlamentare, essa venga dimezzata. Alla Camera attualmente corrisponde a 5.486,58 euro netti (cui vanno aggiunti i rimborsi forfettari per le spese telefoniche, di viaggio e per i collaboratori, che costituiscono gran parte dello «stipendio», che arriva a 14 mila euro netti per un qualsiasi peone, ma è molto di più per un presidente di commissione o un segretario d’aula o chiunque abbia un altro incarico interno).
Un «biglietto da visita»
In altre parole un deputato o un senatore che abbia un’attività professionale dovrà rinunciare solo a 2.700 euro netti al mese. A fronte di fatturati di molte decine o centinaia di migliaia, se non di milioni di euro. Sacrificando meno di 35 mila euro l’anno (2.700 per 12 mesi), insomma, un avvocato potrà utilizzare il brand «CD» (Camera dei Deputati) o «S» (Senato) con tutti i risvolti positivi che ciò comporta, a cominciare dal fatto che il marchio — cosa ben nota — funziona da moltiplicatore di parcelle. Adesso è semplicemente un biglietto da visita che costerà un po’ di più. Ma che paradossalmente mette il deputato (speriamo non definitivamente) al riparo dal dover rispondere di piccoli e grandi conflitti di interesse tra la sua attività professionale e la sua attività legislativa. Come poi possa apparire l’articolo 13 una grida manzoniana è presto detto. Al di la del «quanto», è la logica che non torna, perché diciamo così, inverte «l’onore» della prestazione lavorativa. Un esempio opposto viene dal mondo accademico (che pure da sempre ha attirato critiche per la scarsa efficienza): i dottori di ricerca non possono svolgere una seconda attività che superi della metà l’importo della loro borsa. E non il contrario. Cioè si pretende che si svolga innanzitutto il lavoro per cui si è «stipendiati» e poi, se avanza del tempo, si permette una quota residuale di lavoro «autonomo».
Che la situazione non stia in piedi, se ne deve essere reso conto anche l’estensore materiale del prescritto dimezzamento dell’indennità, perché l’articolo 13 afferma che si prende questo provvedimento «in attesa della revisione costituzionale concernente la riduzione del numero dei parlamentari e della rideterminazione del trattamento economico omnicomprensivo attualmente corrisposto…». Una premessa che la dice lunga su come vanno le cose.
Metà del Parlamento ha un doppio lavoro
Il fatto è che i «doppiolavoristi» sono quasi la metà dei parlamentari. Una truppa considerevole: 446 in tutto (di cui 270 deputati e 176 senatori), su 945 eletti. Oltre a vantare le più alte dichiarazioni dei redditi, stando a uno studio che ha fatto scalpore del sito La voce.info, i «doppiolavoristi» hanno il record anche della percentuale più alta (37%) di assenteismo. Un dato che più che creare scandalo dovrebbe essere considerato banale, visto che non potrebbe essere altrimenti, perché nessuno di loro ha il dono dell’ubiquità, fornendo argomenti a quanti chiedono il coraggio di arrivare al dimezzamento del numero dei parlamentari. Come ha fatto Sergio Romano nell’editoriale di ieri del Corriere.
Ai magistrati «onorevoli» — che sono 17 — (come il neo Guardasigilli Nitto Francesco Palma che nei giorni scorsi si è dimesso dall’ordine giudiziario) è imposta per legge l’aspettativa dal lavoro. Agli avvocati no. Sapete quanti esponenti del libero Foro occupano un seggio? 134: la somma di 87 deputati e 47 senatori. Con il 14% del totale detengono il record assoluto delle professioni. Negli Stati Uniti fare l’avvocato è incompatibile con il seggio parlamentare e con ogni altra attività. Al secondo posto ci sono quelli che si qualificano genericamente «dirigenti»: 133. Al terzo gli imprenditori: 114, contro soli 4 operai. I docenti universitari sono 77, i giornalisti 89 (con i casi dei «doppiolavoristi» Guzzanti e Farina, arrivati in modo eclatante all’onore delle cronache giudiziarie e delle fiducie parlamentari) e 53 i medici.
Connesso al problema del doppio lavoro c’è quello della «buonuscita» a fine mandato che è una «liquidazione» completamente esentasse, perché tecnicamente si tratta di introito «non imponibile». Quello dell’onorevole infatti non è un Tfr (retribuzione differita): si tratta di una tantum o, più precisamente, di «assegno per il reinserimento nella vita lavorativa». Questo «assegno di fine mandato» dovrebbe infatti servire ad aiutare gli onorevoli a «reinserirsi» nel mondo professionale. È un grosso esborso di denaro (dopo cinque anni sullo scranno, 46.814 euro a parlamentare, dopo 15 anni oltre 140 mila euro) che non solo non ha paragoni negli altri Paesi (dove o non c’è o è estremamente contenuto), ma che è del tutto ingiustificato per quanti (avvocati, commercialisti, medici e professionisti di ogni colore politico) non hanno mai chiuso lo studio e restano in attività quando entrano in Parlamento. In proposito il decreto legge però non dice nulla.
Le incompatibilità elettive
Si contano infine sulle dita di una mano i parlamentari per cui scatta l’incompatibilità prevista dal terzo comma del medesimo articolo 13 che recita: «La carica di parlamentare è incompatibile con qualsiasi altra carica pubblica elettiva. Tale incompatibilità si applica a decorrere dalla prima legislatura successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto». Per i parlamentari l’incompatibilità insomma non scatta (come direbbero i giuristi) né ex tunc (dal 1 gennaio 2011) e neppure ex nunc (dalla data di entrata in vigore del decreto). Quindi sono «salvi» i 6 parlamentari che attualmente hanno un doppio incarico: Maria Teresa Armosino, presidente della Provincia di Asti e deputata del Pdl; Raffaele Stancanelli, sindaco di Catania e senatore del Pdl; il presidente della Provincia di Salerno, Edmondo Cirielli, deputato del Pdl; Luigi Cesaro, presidente della Provincia di Napoli e deputato del Pdl; Francesco Rutelli, senatore di Api e consigliere comunale a Roma e Antonio Pepe (deputato pdl) presidente della Provincia di Foggia. In base al decreto in futuro potrebbero fare gli assessori «esterni», come Bruno Tabacci, deputato di Api e al contempo assessore al Bilancio, Patrimonio e Tributi di Milano, che anche se sarà deputato nella prossima legislatura, potrà rimanere tranquillamente al suo posto di Montecitorio perché «chiamato» (dal sindaco Pisapia) e non «eletto» dai milanesi.

Il Corriere della Sera 20.08.11