«La gallina, la gallina, non ci sono dubbi». E di dubbi, in effetti non ne ha uno dei maggiori esperti italiani di previdenza, il deputato del Pdl Giuliano Cazzola: «Meglio la gallina domani che l’uovo oggi. E la proposta del ministro Bossi spero che resti solo una boutade di Ferragosto e nulla di più». Per chi si fosse perso le puntate precedenti, diciamo subito che la disputa nasce dall’intervento tenuto dal ministro Umberto Bossi a Ponte di Legno dove, tradizionalmente ormai, tiene un comizio nel giorno di Ferragosto. L’atmosfera di quest’ultimo appuntamento, per la verità, non è idilliaca: la manovra fresca di varo, se aveva fatto sanguinare il cuore di Berlusconi, figuriamoci quello dei lavoratori dipendenti. Bossi capta l’umore della piazza e fa una promessa: il Tfr invece di essere lasciato alle aziende potrebbe diventare uno stipendio in più ogni anno. La cosa, ripresa dalle agenzie di stampa, fa il giro delle varie roccaforti politiche e istituzionali, incassando – sostanzialmente – un coro di mugugni, variamente argomentati. «Il Tfr in busta paga rischia di compromettere lo sviluppo dei fondi pensione» ha commentato seccamente Confcommercio. «Non è una misura di crescita – ha commentato l’economista Elsa Fornero – ma è addirittura una misura subdola, perché fa percepire una sorta di regalo ai lavoratori quando regalo non c’è».
Quando parliamo di Tfr accumulati, ci riferiamo a un tesoro di circa 13 miliardi (tanti quelli del 2010), che le aziende hanno dovuto tirare fuori. E’ possibile prendere questo gruzzolo e restituirlo ai lavoratori, come Bossi vorrebbe?
Per rispondere a questa domanda occorre capire cosa c’è dentro questa cifra. Intanto, dal 2007 il 23% dei lavoratori ha deciso di aderire alla previdenza complementare. Quei fondi non sono revocabili, e poiché costituiscono un ammontare di oltre 5 miliardi l’anno, non è possibile restituirli sotto forma di stipendi.
Restano 5,7 miliardi di Tfr dei lavoratori di società con più di 49 dipendenti, che hanno optato per mantenere la liquidazione in azienda. Queste somme vengono versate su un «Fondo Tesoro» gestito dall’Inps ma utilizzato per la spesa corrente dallo Stato. Se si toglie, con cosa si copre il buco di bilancio? Il resto – per arrivare a 13 miliardi – è un piccolo fondo residuo in cui confluiscono, sempre presso l’Inps, i Tfr di chi non ha fatto nessuna opzione. Ma non è tutto: come la mettiamo con le liquidazioni degli statali? «Se andassero restituite in busta paga – dice l’economista del Fli Mario Baldassarri – avremmo un incremento salariale del 7%, quasi 12 miliardi e mezzo l’anno». Di fatto un’altra manovra.
In tutto questo c’è da valutare il problema della tassazione: ora i fondi pensione hanno un trattamento fiscale del 12,5% come per le rendite finanziarie. Inoltre il Tfr resta fuori dall’Irpef, è tassato all’11%, oltre ad essere rivalutato ogni anno di una quota pari al 75% dell’inflazione più un punto e mezzo. «Un trattamento simile non sarebbe mai possibile se la stessa somma transitasse in busta paga – spiega Cazzola – e soggiacesse alle aliquote Irpef. Anzi, in qualche caso, quel piccolo incremento di stipendio generato dal Tfr se ne andrebbe una parte in tasse e una parte in consumi».
Se mai il governo volesse comunque insistere su questa strada ci sarebbe da prendere in considerazione un «lodo Bonanni», illustrato dal leader della Cisl in un’intervista al «Sole-24 Ore»: «Si potrebbe rendere obbligatorio il versamento di una quota del Tfr per la previdenza integrativa, abbassando dall’11 al 6 per cento la tassazione. L’altra quota potrebbe andare in busta paga, a condizione che l’aliquota sia al massimo dell’11%».
La Stampa 19.08.11