attualità, politica italiana

"Dietro la triste estate leghista", di Stefano Baldolini

Per il Carroccio la fase più difficile fra incertezze strategiche e crisi di leadership. A guardare arrancare gli esponenti del Carroccio, ex maestri della cortina fumogena della Seconda repubblica, si prova persino nostalgia per i toni arrembanti delle estati passate. Per le boutade che colpivano nel segno e provocavano dibattito sui giornali o sui bagnasciuga.
Eppure i leghisti non lesinano sforzi. L’ultimo a provarci, ma c’è da scommettere che ne arriveranno altri, è il presidente del consiglio regionale lombardo, Davide Boni, che rispolvera lo spostamento della Consob dalla capitale a piazza Affari e sotto l’egida di Giancarlo Giorgetti. Non proprio una bomba (estiva), ma sufficiente in altri tempi a provocare reazioni sdegnate degli amministratori capitolini e via dicendo. Probabilmente avrà maggior successo la polemica del ministro Calderoli contro la «casta dei viziati», i calciatori che hanno paventato lo sciopero per il contributo di solidarietà previsto dalla manovra e si sono visti minacciare il raddoppio dell’aliquota. Al di là del merito della vicenda, il gioco del ministro della semplificazione è troppo facile per non apparire scoperto. Il calcio fa sempre notizia, ci vuole ben altro per scuotere dal torpore i militanti.
Così come non riesce a scaldare i cuori, spostandoci sul versante opposto del Carroccio, la campagna del ministro Maroni per introdurre il delitto di omicidio stradale per chi si mette alla guida ubriaco o drogato. O sul fronte immigrazione, in altri tempi pezzo forte della macchina della propaganda, non è possibile spingere più di tanto sui tragici sbarchi degli immigrati e calcare la mano sui respingimenti, senza apparire polemici contro lo stesso titolare del Viminale, finendo per alimentare controproducenti spirali.
Al netto delle succitate trovate (peraltro tutte abbastanza sensate, ma l’elenco è solo parziale) non restano che le mattane del Senatùr, che però dopo il fisiologico sdegno vengono ignorate, come viene ignorato chi non si ritiene più in grado di controllarsi.
Insomma, un vero e proprio cul de sac comunicativo quello in cui versano gli esponenti leghisti. Costretti a governare, logorati dall’effetto annuncio, ma soprattutto bloccati dalla crisi. È la crisi infatti ad aver reso carta straccia l’exit strategy dal collasso berlusconiano annunciata nel maggio scorso da Bossi («Non mi farò tirare a fondo dal Pdl»). La linea allora era chiara: rinegoziare i mesi di legislatura, concedere gli attacchi ai giudici in cambio del federalismo, ma soprattutto (ogni propaganda che si rispetti si regge su un blocco solido di interessi) convincere Tremonti ad allargare i cordoni della borsa. Ma il proposito si rivela privo di speranze. Un fallimento strategico che finisce per sommarsi ai flop degli ultimi mesi. Al risentimento dei militanti per il familismo dell’oligarchia bossiana nella vicenda del Trota. Al mancato sostegno di Salvini a Milano.
Alla sceneggiata andata in onda a cavallo dell’appuntamento di Pontida sulla guerra in Libia e sui ministeri al Nord.
Al caos dei referendum con governatori filo-Bossi a contraddire il Senatùr e viceversa.
E infine alla confusione di questi giorni sulla manovra, con le diverse anime del Carroccio sovraesposte nel difendere interessi in conflitto.
Messi in fila, troppi fallimenti perché una qualsiasi boutade riesca a mutare il tono grigio di questa lunga estate leghista, che ha radici più profonde di quanto si voglia far apparire, e che vede persino l’annullamento del comizio di Bossi nella roccaforte di Calalzo di Cadore, per la protesta orchestrata dal presidente (leghista) della provincia di Belluno.

da Europa Quotidiano 18.08.11

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«Vergogna, andate a lavorare» Scatta l’assedio ai capi padani

«Andate a lavorareee. Andate affan…». Alla prima auto che al passaggio rovescia improperi, resta un dubbio: si rivolgerà davvero agli ospiti dell’Hotel Ferrovia? Alla seconda, dubbi non ce ne sono più: «Vergognaaa. Andate a casaaa…». E dopo la seconda, arriva la terza e poi la quarta…
I tempi belli del dopo Ferragosto in Cadore sembrano lontani. Bossi e Calderoli non hanno potuto fare il comizio: cancellato. Si temeva non tanto l’arrivo dei poco temuti «sinistri» ma, di gran lunga peggio, dei leghisti. Leghisti arrabbiati con la Lega, padani che non capiscono più le scelte del movimento. In particolare, nel Bellunese, si temono molto i «leghisti di Feltre». Fatto sta che il segretario provinciale di Belluno, Diego Vello, ha cancellato tutto: «Dire che la situazione è rosea sarebbe una presa in giro». All’inizio prova a dar la colpa «a quelli del Pd che avevano organizzato una protesta», spiega che sono state «le forze dell’ordine a sconsigliarci di svolgere l’evento». Poi, lo ammette: «La realtà autonomista sta raccogliendo parecchi consensi…». Da un certo punto di vista, la Lega in Veneto ha scherzato con il fuoco. Alle ultime provinciali di Treviso, per intercettare il voto dei leghisti più radicali, si è presentata una lista fiancheggiatrice dal nome suggestivo, «Razza Piave». Ora, quel tipo di istanze va dilagando. Scavalcando d’un balzo il Carroccio.
Con il problema economico non si scherza. Paolo Bottacin è costernato: «Siamo al si salvi chi può. Come in tutte le Province grandi con pochi abitanti, le entrate proprie non bastano». Il presidente della Provincia di Belluno fa i conti: «Fino a due anni fa, disponevamo di 44 milioni di entrate correnti: 10,5 andavano per il personale, 5 per pagare i mutui, 20 per la gestione dei 711 chilometri di strada quasi tutti di montagna, 2 per il riscaldamento delle scuole e uno per l’energia elettrica. Ci avanzavano 5,5 milioni con cui potevamo fare qualche politica. Ora siamo a 29 milioni. Mancano quasi dieci milioni per svolgere la sola attività istituzionale. Ma se non faccio più spalare la neve dalle strade, che cosa succede?».
Ancora più amaro Vello. E certe parole fanno effetto in bocca a un ragazzo di poco più di vent’anni: «Siamo scontenti, siamo senza soldi, siamo destinati a morire. Se le cose vanno avanti così, scoppia la rivoluzione. Il nostro presidente della Provincia costa come un usciere di Palazzo Chigi. Eppure ci dicono che costiamo ancora troppo». Il problema, come raccontano tutti, è che il Bellunese versa nella casse dello Stato qualcosa come 800 milioni, con un picco di quasi un miliardo nel 2007.
Se per gli altri partiti è dura, per i militanti del Carroccio è devastante: «Tira una brutta aria» scuote la testa il Gino Mondin, consigliere provinciale leghista e proprietario dell’Hotel Ferrovia che ospita gli agosti cadorini dello stato maggiore padano. Lui, sulla cancellazione del comizio dei capi leghisti, era d’accordo: «Volevo dare alla gente la possibilità di dialogare con i politici. Ma non c’erano più i presupposti: Bossi e Calderoli vengono qui per godersi qualche giorno di riposo. Sono disponibili a dialogare con la gente, ma non vengono di certo per prendere insulti». Insomma: il rischio era questo.
In serata, mentre si attende l’arrivo di Bossi (probabilmente a cena con Tremonti), si presentano gli «autonomisti». Sono loro ad aver raccolto 18 mila firme (su 210 mila bellunesi) per il referendum che punta alla creazione della regione Dolomiti insieme a Trentino e Alto Adige. Moreno Broccon, il loro leader, dice cose che qualsiasi leghista sottoscriverebbe senza pensarci: «Possibilità di autodeterminazione, le nostre risorse impiegate per il nostro territorio, politiche vere per la montagna». Ma loro, leghisti non sono. O, almeno, non più: «La Lega ha ampiamente fallito — spiega —. È ormai chiaro a tutti che l’avventura federalista in Italia si chiude con questa manovra».

Il Corriere della Sera 18.08.11