Il decollo dell’Anvur – l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca – è un evento di grande portata. Tre aspetti ne segnano rilievo e sfide. Il primo: l’Anvur inizia a operare in un contesto deteriorato, nel quale “qualità, merito, trasparenza” suonano ormai come parole usurate, ripetute ossessivamente e con altrettanta sistematicità smentite nei fatti. Ad esempio, ci sono voluti quattro anni e mezzo per passare dalla legge istitutiva alla costituzione dell’Anvur; il fondo di finanziamento ordinario ha conosciuto una pesante riduzione e la compressione della quota di “premialità”, e viene distribuito con crescente ritardo (clamoroso quello del 2010: a fine dicembre!).
Il secondo: il regolamento dell’Anvur amplia di molto i suoi compiti rispetto alla legge. Alla valutazione della qualità di ricerca e didattica aggiunge quella delle strutture e dei corsi di studio, la definizione dei requisiti di risorse per l’istituzione e il permanere di università e corsi di studio, l’elaborazione di parametri per l’allocazione dei finanziamenti statali (e altro ancora). L’impressione è che l’amministrazione del sistema universitario e della ricerca riconosca il proprio collasso e affidi, impropriamente, all’Anvur un generale ruolo di supplenza, confinata però alla formulazione di pareri.
Il terzo: l’Agenzia è un ircocervo. È altra rispetto al Miur, con personalità giuridica e adeguata autonomia (quando le previsioni normative saranno state attuate); ma non è una Authority, perché ha funzioni consultive, non poteri di regolazione o sanzione né compiti di distribuzione di risorse “premiali”. Il ruolo dell’Anvur si deciderà dunque sul campo, sarà stabilito dalla sua capacità di essere, rispetto al Miur, un soggetto terzo autorevole: terzo a cominciare dalla definizione del programma di lavoro; autorevole, perché la forza dei pareri che formulerà dipenderà dalla (e insieme costruirà la) propria reputazione.
Per questo è importante che l’Anvur disegni bene il proprio ruolo. Senza l’esigenza di marcare subito la sua presenza. La “veduta corta”, l’attenzione alle urgenze (immancabili), il proposito di prestarsi per tappare i buchi di una amministrazione statale deficitaria sono rischi da evitare. È alla definizione di un’impegnativa agenda, centrata su chiare priorità, che l’Anvur dovrebbe dedicare il suo primo impegno. Concentrandosi sulla core mission – valutare prodotti e risultati della ricerca e della didattica – e mettendo la sordina ad altri temi.
Sorprende che l’Anvur abbia deciso diversamente, esordendo con la proposta di “Criteri e parametri” per i concorsi universitari. L’argomento è lontano dalla sua missione; rientra nelle sue già troppo estese competenze soltanto se di esse si dà un’interpretazione larga. La scelta ha due aspetti discutibili. Innanzitutto, il tema. Quarant’anni di riforme dei meccanismi concorsuali, nelle quali si è provato quasi tutto – raggruppamenti disciplinari ampi e ristretti, concorsi nazionali e locali, commissari eletti ed estratti, e così di seguito – hanno insegnato una cosa: la via normativa al miglioramento dei meccanismi di reclutamento, da sola, è sterile. Senza “buona cultura” e buoni incentivi produce grida di manzoniana memoria. La buona cultura, riferita all’università e alla ricerca, comporta una declinazione della civicness in chiave di attenzione al merito.
Certo, è un bene con un ciclo di produzione lungo, ma può trovare stimolo e sostegno in un impegno del Miur (non dell’Anvur) a dare forte pubblicità, su scala nazionale, agli esiti dei concorsi: name and shame, per capirci. I buoni incentivi sono il terreno privilegiato dell’azione dell’Anvur. Essa può fornire un apporto decisivo all’affermarsi di pratiche di reclutamento meritocratiche: 1) facendo bene, e con sollecitudine, la Vqr, ossia la Valutazione della qualità della ricerca; 2) vigilando a che le valutazioni si riflettano in decisioni coerenti di distribuzione delle risorse (da qui, ancora, l’importanza della terzietà dell’Anvur rispetto al Miur).
Venendo al merito, l’assenso è pieno sull’obiettivo dei “criteri e parametri” suggeriti: reclutare i migliori. Le riserve sono sul meccanicismo e la rigidità degli strumenti proposti. Se criteri e parametri fossero intesi come autorevoli indicatori di massima per determinare i candidati ammissibili all’idoneità, il tutto sarebbe ragionevole (anche se, da solo, verosimilmente poco efficace). Ma la connotazione che l’Agenzia ne dà è cogente: «caratteristiche necessarie per accedere alle procedure di valutazione». Né basta riconoscere che una cosa è utilizzare indicatori e parametri per valutare strutture e altra è usarli per valutare singoli, come fa l’Anvur nel recente documento di risposta ai commenti sui “Criteri e parametri”, se poi si finisce per dimenticare che in sede di concorsi di decidere su singoli si tratta.
Non è allora “aneddotica fuorviante”, ma argomento per una seria riflessione il fatto che scienziati famosi del passato non soddisferebbero oggi i requisiti minimi proposti (per l’Economia politica, un Piero Sraffa sessantenne, tanto per fare un nome). La peer review (processo di validazione tramite il quale i lavori sono sottoposti al giudizio di esperti del settore pari dell’autore, ndr) resta il perno per la stessa valutazione di strutture di ricerca, come l’Anvur prevede per la prossima Vqr e come è documentato dal Research Assessment Exercise inglese, la più matura esperienza nazionale di valutazione della ricerca. E quando si giudichino i singoli il peso della peer review non può che aumentare.
Il Sole 24 Ore 15.08.11