Fiero di essere italiano? Cittadino di un Paese dall’economia immobile, afflitto da un’evasione fiscale sterminata (oltre 100 miliardi di euro l’anno secondo Il Sole 24 Ore), intento a tagliare le spese in ricerca, cultura, istruzione e tutela? Dove la principale stampella della maggioranza di Governo è un partito che minaccia la secessione? Dove crescono la disoccupazione giovanile e l’emigrazione dei ricercatori, e il governatore Draghi parla di “macelleria sociale” in atto? Sarebbe più facile, per questo “tema svolto”, inventariare dubbi e imbarazzi, e non dichiarare fierezze. Eppure…
Eppure mi capita di sentirmi fiero di essere italiano. Due piccole storie recenti. Prima scena in Scozia, dove tutti parlano del tesoro perduto di William Blake. Ecco, in due parole, la storia: nel 2001 un libraio compra per 1.000 sterline da un antiquario di Glasgow diciannove disegni acquarellati di Blake, una serie che il grande artista visionario aveva composto nel 1805 per illustrare il poema The Grave di Robert Blair. L’incisore fu l’italiano Luigi Schiavonetti, ma almeno sette di quei disegni non furono mai incisi. La Tate Gallery offre subito 4,2 milioni di sterline, ma il proprietario non si accontenta, chiede otto milioni. La Tate non li ha, e dunque (nel rispetto delle leggi del Regno Unito) i disegni vengono messi all’asta uno per uno, e acquistati da diciannove collezionisti diversi, il cui nome non viene rivelato. Risultato: un gruppo di disegni concepito come un tutto unico è stato irrimediabilmente disgregato, nessuno potrà mai rimetterlo insieme, nemmeno per una mostra.
Ecco quel che accade quando la legge antepone le ragioni del mercato e del profitto a quelle della cultura e del pubblico interesse. Commento del Times Literary Supplement (17 giugno): «L’avidità privata e l’inerzia del legislatore sono disperanti. È ora di aprire un dibattito sulla proprietà dei beni culturali, e chiedersi se l’interesse privato debba sempre prevalere sul bene comune». Ebbene: in Italia questo dibattito vi è stato per secoli, ha condotto già negli Stati preunitari a una normativa che antepone il pubblico bene all’interesse privato. Nell’Italia unita è così almeno dalla legge Rava-Rosadi del 1909, e fino al Codice Urbani oggi in vigore. Se anziché a Glasgow i disegni di Blake fossero riemersi a Venezia o a Palermo, sarebbero ora di un museo o di un privato, ma certamente ancora tutti insieme, come vogliono le nostre leggi. Possiamo sentirci fieri di essere italiani.
Seconda scena, Stati Uniti. Si parla di come si va evolvendo la cultura ambientalista per reagire ai pericoli crescenti di un mondo globalizzato, dove le ciniche ragioni del profitto devastano l’aria, le acque e i luoghi colpendo alla cieca i cittadini, corpo e anima. Si parla di possibili rimedi, di trattati internazionali, di norme di autoregolazione, di come diffondere un’etica dell’ambiente. Si conviene che è urgente costruire nuove nozioni giuridiche, che possano installarsi al centro di ogni sistema legale, a livello internazionale ma anche nelle singole nazioni. Dominano il discorso due nozioni giuridiche nuove e “in crescita” nella riflessione (anche filosofica ed etica) di questi anni: i diritti delle generazioni future e la nozione di comunità di vita.
In America, la discussione sui diritti delle generazioni future si richiama spesso a un testo fondativo del presidente Theodore Roosevelt (1909): «Conservare vuol dire perseguire il maggior vantaggio per il maggior numero possibile di cittadini, per quanto più tempo possibile. Il criterio del “maggior numero possibile” deve applicarsi all’intero svolgersi del tempo: e in esso noi, che viviamo oggi, non siamo che una frazione insignificante. Abbiamo il dovere di rispettare l’insieme degli uomini, specialmente le generazioni non ancora nate: dobbiamo dunque impedire che una minoranza priva di principii distrugga un patrimonio che appartiene alle generazioni che verranno. Il movimento per la conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali è essenzialmente democratico per spirito, finalità e metodo». Il tema, giuridico ed etico, dei diritti delle generazioni future è sempre più discusso anche in Italia (specialmente da Stefano Rodotà, o nel libro di Raffaele Bifulco, Diritto e generazioni future. Problemi giuridici della responsabilità intergenerazionale). È, in questi termini e nei nostri orizzonti, un tema nuovo. Ma in esso risuona fortissima la voce antica del pubblico interesse come sovraordinato al profitto privato: e che cos’altro era la nozione giuridica di publica utilitas o di bonum commune, se non il richiamo alla responsabilità di ciascuna generazione nei confronti di quelle che seguiranno?
La supremazia del pubblico interesse ricorre quasi ossessivamente nei cento Statuti dell’Italia comunale, nelle norme dei re di Napoli e dei pontefici, viene fortemente riaffermata nella legge di tutela del patrimonio culturale del 1909 (citata sopra), nella legge Croce sul paesaggio (1920-22), nelle leggi Bottai (1939), nel Codice Urbani oggi in vigore, ma soprattutto nella nostra Costituzione repubblicana, la prima al mondo in cui la tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio fu scolpita fra i principi fondamentali dello Stato (articolo 9). Con un proprio linguaggio (che si richiamava al diritto romano), lo sguardo lungimirante dei nostri padri, fino ai Costituenti, già individuava nei “diritti delle generazioni future” il nucleo generativo della tutela.
da www.ilsole24ore.it