All’università mai nessuno si lamenta del peso della ricerca, mentre si può intercettare qualche commento sul peso della didattica. Ovunque nel mondo è scontato, anche se tra molte critiche sul metodo, che si compia la valutazione della ricerca. Che non è innocua. Essa espone in pubblico i prodotti del singolo e del gruppo a cui appartiene, ne sottolinea la forza ma anche le debolezze, ha un impatto forte sulla loro carriera, sulla loro fortuna. E tuttavia è accettata, insieme alle sue conseguenze di classificazione, paragone, competizione. La didattica, o meglio il progetto di un corso di studio e il suo reale funzionamento, sono soggetti alle stesse regole valide per la ricerca: obiettivi chiari, metodi appropriati, riflessione critica, attenzione alla qualità. E tuttavia in Italia la valutazione didattica dei singoli docenti è tollerata, ma non ha un serio impatto, mentre la valutazione dei corsi di studio è in alto mare. Varrebbe la pena di discutere i motivi di questa differenza di trattamento tra didattica e ricerca.
Sottrarsi alla didattica non è un tabù se regolato dai noti dispositivi istituzionali del congedo, per definizione limitato nel tempo e concesso al docente per il potenziamento del proprio capitale scientifico e didattico. Ben diverso è coltivare l’idea del «teaching buy out», ovvero di «comprarsi» una esenzione dalla didattica quando si disponga di cospicui fondi di ricerca con cui retribuire un docente sostituto. Potenzialmente, un messaggio devastante: proprio i più «dotati» tra i docenti/ricercatori (i docenti universitari hanno questa simmetrica funzione, quindi chiamiamoli così), acquisterebbero prestigio sottraendosi alla funzione docente, quasi si trattasse di una incombenza minore o fastidiosa. Quando, al contrario, essere chiamati a formare la maggior parte delle professionalità più elevate del Paese è privilegio da custodire molto gelosamente.
Purtroppo anche i messaggi che arrivano dal centro si prestano a fraintendimenti: tra gli indicatori di prestazione che valgono per i finanziamenti ministeriali all’università quelli relativi alla produzione scientifica pesano oggi il doppio di quelli della didattica. Da una parte è una sottolineatura della funzione che l’università ha, sul fronte della ricerca, per lo sviluppo del Paese. D’altra parte, però, può essere anche il segnale di una scarsa fiducia nei metodi per tenere sotto controllo e valutare processi di formazione. Segnale poco opportuno, visto che l’Europa si è data dal 2005 regole comuni per la «Garanzia di Qualità» dei corsi di studio e per la loro valutazione. Alcuni atenei italiani già stanno sperimentando con successo modelli per l’applicazione efficace di queste regole, ma l’università è una nave grande e le virate sono lunghe.
È venuto il momento di ruotare il timone. Prima di tutto eliminando i malintesi: i questionari studenti — che sono la prima sacrosanta informazione sulla esperienza dello studente, cioè su come viene accolto un corso di studio da chi vi investe molto della propria vita — non sono la valutazione della didattica, ma ne fanno parte insieme a tante altre cose. In secondo luogo stabilendo una volta per tutte che non ha senso mettere in piedi qualsiasi forma di valutazione o accreditamento esterno se prima non si applica in ateneo, cioè in casa propria, la «Garanzia di Qualità»: lo strumento tecnico con cui si tengono sotto controllo i fattori che determinano la qualità di un corso di studio, li si traduce in codici di comportamento per chi opera e in indicatori per chi valuta.
I modelli che si stanno sperimentando in Italia sono articolati in cinque aree di garanzia: identificare la domanda di formazione proveniente dall’esterno, dare una risposta alla domanda di formazione stabilendo risultati di apprendimento coerenti con la domanda, mettere a disposizione degli studenti l’ambiente di apprendimento più adatto per raggiungere i risultati previsti, verificare che i risultati attesi siano effettivamente conseguiti, disporre di una organizzazione credibile e di sistemi adeguati di osservazione e di raccolta dati. Forse la chiave di lettura della poca fiducia, quando non dell’ostilità, verso la valutazione dei corsi di studio si nasconde nel fatto che questa lascia tracce non sempre credibili, affidabili e utili. La «Garanzia di Qualità» oggi disponibile riesce invece a produrre queste tracce, e le produce in modo che esse abbiano un impatto reale sui comportamenti dei docenti: che non si limitino quindi ad essere pure collezioni di dati a condimento di rapporti di valutazione fatti per pochi specialisti e per inesplorati archivi.
Il Corriere della Sera 12.08.11