Crediamo, almeno per un momento, alle ipotesi di intervento delineate da Giulio Tremonti per risanare i conti pubblici e rilanciare il Paese. Concentriamoci sul lavoro. Lo scenario che abbiamo davanti è questo: libertà di licenziamento e cancellazione dello Statuto dei lavoratori, riduzione delle retribuzioni per i dipendenti pubblici, blocco delle pensioni di anzianità, aumento a 65 anni dell’età pensionabile per le donne del settore privato. Più o meno questi sono i capitoli principali di intervento sul lavoro e, naturalmente, Tremonti si è giustificato sostenendo che le misure più dure, a partire dai licenziamenti, sono state richieste nella famosa lettera della Banca centrale europea che pur autorevole, tuttavia, non può essere scambiata per l’intera Europa. Il menù sociale della manovra, se davvero sarà così formulato, si presenta come una nuova guerra al mondo del lavoro, un’offensiva in cui gioca un ruolo determinante l’aspetto ideologico: si persegue la strada della riduzione o dell’eliminazione dei diritti e delle tutele del lavoro giustificandola ideologicamente come una indispensabile modernizzazione del mercato del lavoro e, più in generale, della nostra economia. Il governo e Tremonti, che un paio d’anni fa fece pubblicamente l’elogio del posto fisso conquistandosi i titoli di apertura del Tg1 di Minzolini, usano la mistificazione quando fanno intendere che queste sono le ricette impiegate in Europa. È falso, naturalmente. La Commissione straordinaria sulla crisi istituita dal Parlamento europeo ha da poco presentato le sue conclusioni. Il testo finale, approvato a larghissima maggioranza dall’assemblea di Strasburgo, indica la necessità di affrontare la crisi tutelando e valorizzando il lavoro, con il superamento della frammentazione e della precarietà. Nessuno in Europa, nemmeno i governi e i gruppi parlamentari di centro destra, ha chiesto la libertà di licenziare o politiche finalizzate alla riduzione dei sistemi di tutela del lavoro. E nemmeno è stata sollecitata qualche forma di ulteriore flessibilità i cui limiti, soprattutto in tempi di crisi, sono stati addirittura denunciati in un articolo del Financial Times. Il documento finale della Commissione straordinaria sulla crisi sollecita una sforzo generale per la formazione del lavoro e invita a ritrovare lo spirito del piano Delors e gli obiettivi di Lisbona. Naturalmente l’attacco del governo italiano allo Statuto dei lavoratori, all’articolo 18, al sistema consolidato dei diritti dei lavoratori rischia di scatenare una nuova stagione di tensioni sociali e probabilmente Sacconi e compagnia contano di usare questo grimaldello per dare una sberla alla Cgil (un incubo per gli ex sodali di Craxi..), per dividere di nuovo i sindacati dopo le recenti intese unitarie. Già nel 2001, all’inizio della legislatura, Berlusconi lanciò l’attacco all’articolo 18, ispirato e appoggiato dalla Confindustria di Antonio D’Amato. Quell’operazione venne sconfitta, ma certi “modernizzatori” non si arrendono mai. Oggi, nel mezzo di una crisi economica e sociale spaventosa, dopo che sono stati cancellati centinaia di migliaia di posti di lavoro, dopo che 400mila giovani hanno perso il posto l’anno scorso, il governo vorrebbe favorire la «flessibilità in uscita», cioè dare alle imprese la libertà di licenziare, per favorire il risanamento e rilanciare l’economia.È una provocazione. Un provvedimento del genere, se davvero fosse approvato, farebbe aumentare in misura esponenziale i licenziamenti. C’è, tuttavia, una strategia, un pensiero dietro questo affronto. Il governo ritiene che, in un momento di crisi e di emergenza, si possa sfondare anche sul fronte del lavoro e dei diritti sfruttando le divisioni e la debolezza dei sindacati. In tutta Europa i corpi intermedi di rappresentanza sociale sono in difficoltà, fanno fatica ad agire e a rappresentare gli interessi di un mondo sempre più complesso e frammentato. Anche in Italia ci sono queste difficoltà. Ma nessuno, tanto meno questo governo, può davvero pensare che una nuova guerra contro il lavoro non produrrà reazioni e tensioni sociali. E allora chi ci metterà la faccia, chi spegnerà l’incendio sociale?
L’Unità 12.08.11
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“Chi è più ricco deve pagare di più. La CGIL non starà ferma”, intervista a Susanna Camusso di Oreste Pivetta
Sciopero generale? C’è chi grida allo scandalo, chi accusa subito il sindacato di irresponsabilità e chi, come il presidente del consiglio, chiama in causa il sindacato greco in un improbabile paragone con quello italiano.
«Ci vorrebbero senso della misura e sensibilità… anche nei confronti dei sindacalisti greci », commenta Susanna Camusso, segretario generale della Cgil.
Ma lo sciopero generale è una possibilità a scadenza prossima, un fraintendimento,una minaccia per il futuro? «In giro l’irresponsabilità è tanta, ma di irresponsabilità non si può accusare il nostro sindacato che all’incontro con il governo si è presentato con una proposta seria, che non ha respinto neppure la possibilità di una manovra nella manovra, che è pronto a discutere tutte le richieste della Unione europea, le famose richieste contenute nella lettera che nessuno ci ha letto. Siamo responsabili, siamo disponibili, purché si rispetti un principio di equità sociale, purché a pagare non siano sempre gli stessi. Irresponsabile è chi per tre anni ci ha raccontato che tutto filava a meraviglia, fino a questo punto, davanti a un disastro che non si può esorcizzare tirando in ballo la crisi mondiale: certo, la crisi mondiale c’è, ma noi ci abbiamo messo del nostro e siamo diventati un caso nel caso ».
Lo sciopero generale dunque è una eventualità che la Cgil non esclude? «Noi rivendichiamo misure nel segno dell’equità sociale. Non fosse così, si dovrà ricorrere alle forme classiche della protesta, tra le quali anche lo sciopero generale.
Su quali altri strumenti può contare il mondo del lavoro per farsi sentire? ». L’incontro tra governo e parti sociali è stato deludente… uso un eufemismo. Il giudizio è stato pressoché unanime… «Ci hanno spiegato di non poter anticipare nulla a borse aperte».
Facciamo finta che sia giustificata prudenza… «Certo. Ma se si chiede responsabilità, ci deve essere volontà di confronto, di discutere, di ascoltare le tesi degli altri. Non si costruisce coesione attorno a ultimatum. E neppure attorno a vaghe anticipazioni. Una nuova finanziaria da venti miliardi? Le pensioni? Lavori pubblici »?
Ecco, le pensioni. Età pensionabile a 65 anni. In linea con l’Europa. Sarebbe uno scandalo? «Una considerazione generale: quando si chiama un paese a decisioni importanti,non si può prescindere da un vincolo di equità. Premere sui soliti, impoverire quanti vivono di pensioni, colpire i redditi fissi, esporre a più forti difficoltà quanti hanno bisogno dell’aiuto e dei servizi dello stato: non sono misure che aiutano a rimettere in moto il paese. Non mi pare che alzare l’età pensionabile a 65 anni sia da questo punto di vista un toccasana. Nessuno nega che si possa fare, che si possano introdurre elementi di elasticità, di volontarietà, di flessibilità, ma non credo che partire da una nuova soglia dell’età pensionabile significhi incamminarsi sulla strada che ci allontana dalla crisi. Vorrei aggiungere soffriamo già di una elevatissima disoccupazione giovanile. Vogliamo incrementarla? Pensiamo che questa sia la ricetta per rimettere a posto i conti dell’economia Italia? Ho dei dubbi. L’idea di far cassa sulle pensioni mi sembra francamente peregrina, pensioni che sono per conto loro tra le più basse. Facciamo tutti i tagli necessari, ma necessari allo sviluppo, tagli che non siano ragione di ulteriore depressione».
Società italiana depressa. Ma, secondo voi del sindacato, a che punto siamo del precipizio? «Bisogna sempre considerare che in Italia resiste un sistema manifatturiero, solido, che esporta, che ha consentito la modesta crescita di questi anni. Altro punto di forza: il risparmio privato, alto, sicuramente, una diga che ha messo al riparo famiglie e soprattutto figli. Sono condizioni che avrebbero potuto permetterci di reagire prima e meglio degli altri. Invece siamo qui, affaticati, spaventati, in attesa ancora, traditi da tre anni di promesse e di annunci fantasiosi, tante parole a vuoto sulla crisi che non c’è e nessuna politica di sviluppo».
Tremonti ha comunque ieri indicato alcuni obiettivi…Ad esempio trasferire la domenica le festività civili… «Non quelle religiose, però. Dunque25 aprile,2 giugno, Primo maggio si dovrebbero festeggiare di domenica. Mi sembrano misure risolutive, che appagheranno i mercati… Misure che dimostrano confusione e scarsissima aderenza alla realtà storica e politica».
Tremonti ha aggiunto qualcosa a proposito di licenziamenti. «Testualmente: diritto di licenziare. Un salto di qualità, dopo che i governi di destra hanno moltiplicato nel lavoro le figure precarie, rendendo difficile l’aumento o almeno la difesa della qualità del nostro sistema produttivo, che avrebbe bisogno di tanta professionalità».
E sulle tasse? «Niente che faccia pensare a una seria azione contro l’evasione fiscale. Annunci e basta. Mentre una politica antievasione servirebbe non solo a far l’emergere il sommerso, a colpire la criminalità, ma diventerebbe condizione favorevole di dinamismo, diuna competizione reale, frenata invece da clientele, favori, taglieggiamenti».
Argomento forte: la patrimoniale. «Berlusconi dice no, Bossi rincara: guai alla patrimoniale. Far pagare chi ha più soldi servirebbe al paese, anche perché sarebbe il segno di maggior equità e l’equità non è solo un vincolo morale, di giustizia, è una risorsa, sarebbe uno di quei marchingegni che aiutano la ripresa, ampliando il mercato, costruendo e diffondendo fiducia. Quando si dice no alla patrimoniale, si difendono gli interessi di una parte soltanto ».
Altro argomento forte: i costi della politica. Che ne pensa il sindacato? «Siamo contro insopportabili privilegi, ma il tema dell’equità va ben oltre l’abbattimento di questi privilegi e non può diventare un alibi. Se cancelli un vitalizio dei parlamentari, non per questo puoi caricare di balzelli i lavoratori».
L’Unità 12.08.11
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