Pare proprio che a salvare la patria in mutande dovranno essere i
pensionandi. Decine di migliaia di lavoratori che, dopo aver sgobbato fin da ragazzi e pagato contributi previdenziali per decine e decine di anni, arrivati a poche buste paga dal traguardo stanno per sentirsi dire che la loro pensione è diventata un lusso insostenibile. I nullatenenti con yacht a carico, le società municipalizzate che proliferano come funghi velenosi: queste e altre minuzie possono aspettare. La vera urgenza è il taglio di un diritto maturato, e autofinanziato, per tutta una vita.
E’ un’ingiustizia, quindi si farà. Nel più totale disprezzo dei progetti di quelle persone, che ora rischiano di annegare nell’incertezza insieme con le loro famiglie. Un’ingiustizia e anche un controsenso: come riusciranno i giovani a entrare nel mondo del lavoro, se si impedisce ai diversamente giovani di uscirne? Le ragioni della scelta sono fin troppo facili da comprendere. I pensionandi non hanno una lobby che li tuteli e non godono neppure di simpatia sociale. Come gli anziani in genere. Con il prolungamento della vita media, la società sembra quasi imputare loro la colpa di non voler morire. Di questo passo guadagnerà seguaci la provocazione dello scrittore inglese Martin Amis, che in un’intervista alla Bbc propose di rimettere in ordine i conti dello Stato Sociale sopprimendo i cittadini al compimento dell’ottantesimo anno. Va bene tutto (insomma, quasi tutto). Ma un Paese di privilegiati come il nostro eviti almeno di mettere alla gogna degli individui che hanno la sola colpa di aver creduto nelle leggi.
La Stampa 09.08.11