Profluvio di notizie e interesse per una settimana circa. Poi, passati gli scritti, oblio, fino al prossimo anno. L’esame di Stato si è concluso da pochi giorni. Chiuso negli scatoloni, come il presepe dopo l’Epifania. È la tecnica migliore per annullare un’occasione di potenziale riflessione e determinazione di strategie alternative. L’esame non è solo la fine di un percorso per mezzo milione di ragazzi ogni anno, ma l’interfaccia di una scuola che celebra le sue contraddizioni.
Se il tormentone dell’era Gelmini-Brunetta – la valutazione – fosse davvero un’urgenza costruttiva, si farebbe tesoro delle evidenze che emergono. Invece, le restrittive novità introdotte quest’anno hanno solo reso la prova frustrante per molti dei ragazzi più meritevoli, senza fare dell’esame un test più confacente a ciò che la scuola è.
Le risposte di Gelmini per arginare la caterva di 100 e lode di alcune scuole del Sud Italia hanno di fatto interdetto quella votazione a ragazzi seri, dal curriculum ineccepibile, in possesso di voti superiori all’8 per tutto il triennio e del massimo dei crediti scolastici, se “rei” anche di un’unica imprecisione in una delle 4 prove di esame, nelle quali – per prendere la lode – è necessario avere ottenuto sempre il massimo dei punteggi: mission impossible. Inutile provare a spiegare a Gelmini che il peso troppo sbilanciato sui punteggi dei 3 scritti e dell’orale rischia di vanificare il lavoro serio di anni. Difficilmente il voto dell’esame, così determinato, rende merito di percorso globale, formazione costruita nel tempo, adeguatezza della preparazione complessiva, crescita culturale di un individuo. Quanto ai criteri di ammissione, la nota barriera del 5 anche in una sola disciplina, vincolo a bocciare, ha costretto i consigli di classe a funamboliche operazioni di facciata per eludere quell’orpello di finto rigore.
Ma torniamo al punto: nella tanto evocata Europa gli esiti delle prove finali e intermedie sugli apprendimenti degli alunni sono la base per interventi di politica scolastica. Da noi non è così. Da anni l’esame indica direzioni inascoltate, perché la preoccupazione suprema non è rendere la scuola migliore, ma ricavare da essa i maggiori risparmi possibili. Mi piacerebbe, come fanno in molti, Mastrocola in primis, credere che la popolazione scolastica italiana sia costituita esclusivamente dai miei liceali. Non è così. Nel 2008 – ultimo anno disponibile sulla banca dati del ministero, provare per credere – quando ancora non era entrata in vigore la “riforma”, che ha notevolmente peggiorato la situazione, dei 9113 bocciati nella scuola statale, 4464 provenivano dal tecnico, 2297 dal professionale, l’esigua rimanenza dai licei. I diplomati dei licei furono il 35,8%, quelli dei tecnici il 36,7%, con i professionali al 15,7% e i restanti distribuiti tra magistrali e istituti d’arte. Per il prossimo a.s. la distribuzione delle iscrizioni vedrà il 49,2% ai licei, il 51,8% tra tecnici e professionali. Tecnici e professionali concentrano maggior numero di bocciature e massima propensione alla dispersione, ancor più oggi, indeboliti come sono stati dalla “riforma”. Perciò somministrare prove d’Italiano identiche per tutti gli ordini di istruzione secondaria non fa altro che sottolineare il gap di prestazioni tra gli studenti: siamo, anno dopo anno, di fronte ad analisi del testo letterario con sofisticate consegne di tecnica letteraria o a saggi brevi, di ambito artistico e filosofico, che richiedono conoscenze e competenze che solo il liceo prova a fornire ai propri studenti. L’incursione del ’900, poi, sollecitazione culturale e stimolo a riflessione e comprensione dell’oggi, continua a essere annuncio, etichetta suggestiva, con scarsa concretizzazione nelle pratiche scolastiche, compresse in percorsi disciplinari su cui da troppo non si mettono le mani seriamente. In un Paese in cui si è da tempo rinunciato all’idea di biennio unitario e a sanare la tradizionale divaricazione tra sapere e saper fare.
La seconda prova – quella di indirizzo, Latino o Greco per il classico, Matematica per lo scientifico, ma anche Costruzioni per i geometri – dimostra anno dopo anno l’inadeguatezza della didattica attuale per l’apprendimento di quelle discipline, in cui si registrano clamorosi insuccessi, quando non intervenga il ricorso clandestino alla rete, come quest’anno (il 32% degli studenti ha dichiarato di aver copiato). In tutto ciò, manca solo la III prova (il quizzone) uguale per tutti, insistito annuncio di Gelmini: sfidando buon senso e insegnamenti di don Milani, sempre più “parti uguali tra diversi”. E l’ostinazione a non voler interpretare costruttivamente le evidenze che l’esame, anno dopo anno, ci consegna.
da il Fatto quotidiano