La politica della Gelmini ha messo in pratica il principio espresso da Roger Abravanel: «Si premiano i migliori indipendentemente dal reddito» (intervista al Corriere della Sera del 11-7-2010). La retorica sulla meritocrazia è stata usata come pretesto per creare un altro carrozzone pubblico – la Fondazione per il merito, con relativo presidente e consiglio di amministrazione – e soprattutto per demolire il diritto allo studio che, secondo lor signori, servirebbe solo a studenti mediocri e figli di evasori. Stiamo ai fatti. Il sistema attuale assegna le borse ai meritevoli anche se privi di mezzi. La misura del merito per avere la borsa è accertata dagli esami sostenuti fin dal primo anno, con un criterio più severo rispetto ai sistemi di Germania e Francia che verificano solo al secondo anno. Applicare esclusivamente – come propone Abravanel nel suo intervento su l’Unità di giovedì scorso – la valutazione del merito con untest standardizzato di ingresso, cosa molto diversa dalle prove di orientamento, sarebbe un’ingiustizia sociale e nessuno in Europa si è sognato di farlo, neppure i governi di destra. Il figlio della famiglia povera che arriva all’università ha già superato ostacoli difficili per l’assenza di borse di studio nelle medie superiori e non può essere inchiodato ai risultati della precedente formazione scolastica, anzi va aiutato con un sussidio proprio per avvicinarlo alle stesse opportunità del figlio di papà. Poi manterrà quell’aiuto solo meritandoselo con buoni risultati negli studi.
Ne si puó pensare di scaricare i costi degli studi sui prestiti da restituire in età da lavoro. Con uno stipendio medio di ingresso di circa mille euro il giovane laureato dovrebbe pagare l’affitto della casa, la pensione integrativa, la restituzione del prestito per gli studi… e poi dovrebbe anche campare.
Oggi in Italia la soglia di reddito per ottenere la borsa è più restrittiva che in Europa e ciò nonostante neppure tutti gli aventi diritto la ottengono effettivamente. Il diritto allo studio è garantito solo al 9% della popolazione studentesca – ben lontano dal 25% della Francia e della Germania – e lascia scoperti non solo i ceti poveri ma anche quote significative del ceto medio. Il fondo statale è di 100 milioni, circa la metà di quanto contribuiscono gli stessi studenti col la tassa regionale del diritto allo studio, e nei prossimi anni tenderà a scomparire con 26 milioni nel 2012 e 13 milioni nel 2013. In questa drammatica penuria di risorse la ministra, raccogliendo il suggerimento del suo ispiratore, vuole estendere il sussidio anche ai figli di papà, diminuendoli di conseguenza agli studenti privi di mezzi. I figli di papà non hanno certo bisogno del sussidio statale per sostenersi negli studi. Semmai a loro e a tutti i meritevoli, in questo caso davvero a prescindere dal reddito, andrebbero offerte opportunità di alta formazione, ad esempio serie scuole di specializzazione, buoni dottorati. Il sussidio pubblico, soprattutto se le risorse sono scarse, andrebbe invece concentrato sui meritevoli che non ce la fanno a sostenere i costi degli studi. Almeno questo dice la nostra Costituzione. E anche il buon senso.
Solo la destra italiana pensa il contrario. Le belle parole sul merito servono a coprire la vecchia politica di togliere ai poveri per dare ai ricchi.
L’Unità 30.07.11