Il dibattito che si è aperto nel Pd sul ritorno della cosiddetta “questione morale” non può essere liquidato con superficialità. Certo, anche su questo tema, come su quello della “casta”, è sempre bene non farsi travolgere dall’emotività e dalle parole d’ordine. Servono prudenza, responsabilità, equilibrio. Ma anche chiarezza e trasparenza.
Allora cominciamo a dire cosa non si deve fare. Innanzitutto il Pd non deve’essere un partito moralista, inquisitoriale e vagamente giustizialista. Non si può trasformare un singolo, o più episodi – ancora, comunque tutti da verificare e da accertare – in un’arma decisiva per scassare un partito o distruggere le persone. La presunzione di innocenza, almeno fino a prova contraria, dovrebbe ancora essere una regola e non solo un inciampo. Se c’è qualcuno nel Pd, e purtroppo c’è, che imbraccia la questione morale per trasformarla in un’arma politica sperando di ottenere più spazi personali o di corrente è bene che si ravveda in fretta.
Con il moralismo di bassa lega non si va da nessuna parte né, tantomeno, con un istinto perennemente giustizialista. In secondo luogo, non c’è alcuna “superiorità morale” da rivendicare. Non sopporto chi, nella vita come nella politica, si erge a predicatore incallito o a giudice insindacabile. È meglio prendere atto che, soprattutto nell’attività politica, ci si deve comportare sempre con correttezza e trasparenza rispettando codici e regolamenti che disciplinano la vita di ogni partito e nel rispetto costante e senza intransigenza delle leggi e dei principi del nostro ordinamento.
Ma basta con i “santoni” contemporanei e con tutti coloro che distribuiscono ogni ora pagelle e giudizi sugli altri. Sono personaggi notoriamente insopportabili e che, altrettanto normalmente, nascondono desideri inconfessabili dietro il solito e vecchio paramento del moralismo e dell’integralismo.
In ultimo, la “questione morale” non può mai diventare la base per un efficace e duraturo programma di governo. Gli slogan riassuntivi di questo ipotetico programma “più galera per tutti” o “più manette per tutti” non può essere l’orizzonte entro il quale si costruiscono alleanze e si definisce una cultura di governo. La piena trasparenza e un comportamento politico all’insegna della coerenza e della sobrietà sono e restano gli ingredienti indispensabili per una corretta e credibile attività pubblica.
Ma non possiamo trasformare questo tema in una clava dove qualcuno pensa di dividere il mondo tra i “buoni” e i cattivi” e, come sempre, di trarne un vantaggio personale e politico. Questo moralismo d’accatto va bandito senza attenuanti.
Detto questo, però, è bene anche alzare il coperchio su altri versanti. E, visto che parliamo del Pd e non di altri, di essere altrettanto intransigenti ed esigenti con noi stessi.
Appurata che non c’è una “superiorità morale” nostra, non ci può essere al contempo nessuna difesa “corporativa” o di gruppo o di corrente. Nessuna correità, quindi. Chi sbaglia, nel rispetto delle regole e delle procedure, semplicemente paga. Senza persecuzione, senza patiboli e senza esporli al pubblico ludibrio. Ma paga. Come? Semplice.
Con la sospensione immediata dagli incarichi e dalle funzioni che si rivestono nel partito e senza intralciare minimamente il corso e il lavoro della magistratura. E, in secondo luogo, lavorando affinché la mala pianta dell’intreccio tra economia e politica venga sconfitta alla radice. Troppe volte questo tema, irrisolto e mal affrontato, è la causa concreta della degenerazione della politica e della sua progressiva trasformazione in un luogo – almeno così viene percepito – di malaffare e di possibile arricchimento.
Certo, la politica costa. E anche la democrazia costa. Fuorché pensiamo che la politica, d’ora in poi, debba essere appaltata esclusivamente a chi ha i mezzi. Cioè ai ricchi. Noi arriviamo da una tradizione che ha sempre individuato nel partito “uno strumento democratico per eccellenza capace di trasformare i ceti popolari da classe subalterna a ceto dirigente del nostro paese” – come amava ripetere ossessivamente Carlo Donat-Cattin in tempi non sospetti. E, soprattutto, siamo oggi in un partito che attorno alla questione morale, al rispetto delle regole, alla rigorosa osservanza delle leggi, dei regolamenti e del rispetto delle istituzioni e dei suoi organi, ha costruito la sua identità politica e la sua cifra culturale. Su questo versante nessuna indulgenza e nessun tentennamento. Non possono esistere zone d’ombra o comprensioni pelose ed equivoche.
Anche perché non siamo di fronte ad una nuova Tangentopoli come alcuni organi della destra cercano di assecondare quotidianamente. Ed è proprio su questo versante che mi permetto di sottolineare, a gran voce, che il Pd può rivendicare una “diversità” culturale nei confronti dei partiti della destra. Per noi il rispetto delle regole e della trasparenza non è moralismo d’accatto o riproporre piccoli tribunali inquisitoriali.
Per noi queste regole sono il preambolo costitutivo della stessa esperienza politica. Adesso si tratta di procedere con coerenza, serietà ed intransigenza.
Perché su questo versante, e lo dico senza prepotenza ed arroganza, sta la profonda differenza con gli atteggiamenti, lo stile e la prassi comune dell’attuale destra italiana.
da Europa Quotidiano 28.07.11
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“Ma quella diversità è nei fatti”, di Federico Orlando
Ieri Europa si è compiaciuta della considerazione di Bersani che nessuno nel Pd possa ritenersi «geneticamente diverso», con ciò chiudendo la questione della “superiorità morale” della sinistra, e quindi della sua differenza antropologica.
Ce ne compiaciamo anche noi, ma con juicio. Infatti, è solo la bolsa retorica del giornalismo di destra, e di quello cerchiobottista, a speculare sull’eredità che al Pd sarebbe arrivata dal Pci, inventore della “diversità” (comunista) dagli altri partiti di massa, nella “questione morale” che s’intravvedeva negli anni Ottanta ed esplose nei Novanta. E a filosofare sul presunto problema di un’antropologia di sinistra, da cui sarebbe derivata al Pci quella superiorità morale.
Insomma, contro la chiarissima posizione di Berlinguer («mai più troveremo un nemico così», lo rimpiangemmo sul Giornale di Montanelli), si confondeva già allora, per bassa bottega, fra un principio tutto politico e tangibile, quello della “diversità” di un partito dagli altri nel quadro di una crescente questione morale, e un principio tutto metafisico, qual era quello di una “superiorità antropologica”: principio oscenamente razzista e intellettualmente sociologico, che non poteva stare nel cervello di un uomo raffinato come Berlinguer e di una cultura di sinistra che, combattuta con asprezza dai democratici liberali e poi dai socialisti, era pur sempre in larga parte di derivazione idealistica e crociana, e faceva dello stato e del senso dello stato il centro di una religione laica. Laddove altri vedevano la politica soprattutto in chiave sociale, clientelare ed elemosiniera.
L’attacco della sinistra movimentista a questa cultura postliberale di Berlinguer ne è la controprova, dal Sessantotto in poi.
Il melting pot italiano, che nei decenni postbellici aveva unificato il paese nella tv e nella cucina, nello sport e nelle vacanze, nella libertà sessuale e nell’autotutela piccolo-proprietaria, con risultati intellettualmente mediocri ma nazionali, non aveva creato analogo melting pot in politica: dove c’era chi rubava in nome del privato e chi non rubava in nome delle leggi o, se preferite, della comunità. Oggi si scopre (ma non solo oggi) che anche fra i comunisti c’erano disinvolti personaggi che manovravano tangenti per sé o per il partito o in jure utroque; e c’erano fra i liberali di Altissimo (anche le formiche, nel loro piccolo…) e i repubblicani di La Malfa, che predicava il “partito degli onesti”.
La differenza tra i partiti più coinvolti e gli altri è che i primi non avevano cultura dello stato, salvo eccezioni positive, e i secondi l’avevano, salvo eccezioni negative. Ma né le eccezioni positive né le eccezioni negative possono essere invocate come l’esistenza di un costume unico e generale: la casta politica era tutta uguale nei privilegi tollerati, non di fronte alle tangenti. E ciò perché diverse erano le classi sociali a cui quelle caste o partiti si rivolgevano: ci vorrebbe Paolo Sylos Labini a rispiegarlo, oggi, quarant’anni dopo il famosissimo Saggio che non piacque al Pci, che vi vide il declino numerico della classe operaia, e non piacque a dc e socialisti, che vi videro la denuncia di una amoralità delle classi sociali numericamente egemoni da cui ricevevano voti: artigiani, commercianti, professionisti, proprietari, redditieri, industriali.
L’evasione fiscale, resa evidente dopo l’entrata a regime della riforma Vanoni, il lavoro nero, l’imboscamento dei patrimoni immobiliari, i fitti non denunciati, il mercato della casa sempre più affluente e sempre più jugulatorio, la mafiosità delle cattedre universitarie e dei posti di alta qualificazione, la ricostituzione della casta militare, l’alluvione dell’affarismo ecclesiastico, creavano, eccome, la “diversità” fra questi italiani e i ceti medi a reddito fisso: i professori, i maestri, gli impiegati pubblici, i preti poveri, gli studenti fuori sede, le famiglie monoreddito, i malati (spesso falsi, ma sempre più marginali), i pensionati minimi (spesso illegittimi, ma sempre “più minimi”), i disoccupati, i non occupati, le donne rassegnate alla mancanza di lavoro, le coppie di fatto senza casa senza previdenza e spesso senza reddito: insomma, tutti costoro, cui per legge era inibito l’accesso al privilegio, all’occasione, al bizantinismo truffaldino, erano, sì, e sono tuttora “diversi”.
Non certo “antropologicamente superiori”, forse neanche “moralmente superiori”, perché a volte il comportamento morale non lo scegliamo ma lo subiamo, ma certissimamente diversi sul piano politico. È questa certissima diversità che spinge una parte maggioritaria dei ceti legibus soluti a stare con Berlusconi fino a sopraggiunto disgusto; e una parte maggioritaria dei ceti “vincolati” a stare con Bersani.
E penso che Bersani, quando dice «Noi non rivendichiamo una diversità genetica, noi vogliamo dimostrare una diversità politica», sappia benissimo che il genetico e il politico sono aggettivi, il sostantivo che conta oggi è diversità. E non è detto che su questa diversità politica non si possa costruire anche una diversità morale: in fondo, cosa fanno – e senza i partiti – milioni di donne che protestano contro la prostituzione dell’immagine femminile; milioni (presto) di contribuenti che bruciano le cartelle esattoriali pensando anche al concittadino che ti ripara la chiave dell’acqua ma non dichiara quanto gli hai dato; centinaia di migliaia di “diversi” cui il centrodestra clericale nega perfino la difesa fisica oltre i riconoscimenti sociali; i milioni di studenti e insegnanti che a settembre ricominceranno come nell’autunno del 2010 la sacrosanta protesta? Una volta si chiamavano blocchi sociali. E perché due blocchi sociali dovrebbero scontrarsi se non fossero diversi?
da Europa Quotidiano 28.07.11
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“E ora Bersani si sente accerchiato”, di Andrea Tognotti
Il caso Penati monta sui giornali, il Nazareno teme un altro 2005 e passa al contrattacco. Palazzo Montecitorio, ore 12. Pier Luigi Bersani ha appena finito di spiegare il senso dell’intesa tra l’Agenzia italiana risposta emergenze (Agire) e il Partito democratico: una mobilitazione per il Corno d’Africa messo in ginocchio dalla carestia.
Chiede se ci sono domande sul tema, precisando che – «siccome so come funziona» – ad eventuali altre domande risponderà dopo. Dunque, nessuna intenzione di sottrarsi ai quesiti dei giornalisti nonostante – o, forse, esattamente per questo – non ci volesse un indovino per immaginare quale sarebbe stato il tema: la questione morale nel Pd.
Assieme a lui, oltre al responsabile esteri Lapo Pistelli, il presidente dei deputati dem Dario Franceschini. Una delegazione di peso. Quando la domanda cade sul «diversamente ladri» con cui il Giornale ha aperto il numero di ieri, la risposta è secca: «Accettiamo critiche, ma non aggressioni, calunnie e fango». Sì, perché secondo il leader del Pd la «macchina del fango» è in piena azione. E non è alimentata solo dalla stampa di destra, dalla quale tutto sommato ci si aspetta un trattamento poco riguardoso. Quello che preoccupa l’entourage bersaniano è che un po’ tutti, anche i quotidiani non schierati con il Cav, inzuppino il pane sulle traversie giudiziarie di Penati, trascurando, per dire, le ultime rivelazioni sul subaffitto pagato da Tremonti a Milanese per la casa di Campo Marzio.
«Due pesi e due misure», dice Bersani, che non vedrebbe male «un editorialino» dedicato agli affari dell’ex braccio destro del ministro dell’economia. Un «editorialino », par di capire, che faccia il paio, ad esempio, con quello di Antonio Polito di ieri che prende di mira il Pd.
Il timore, in definitiva, è che sotto l’ombrellone si parli – come nel 2005, con la vicenda Unipol – della questione morale democratica. Che poi, per i nomi in ballo, rischia di diventare la questione morale degli ex Ds.
D’altro canto il Pdl cerca di cogliere la palla al balzo e chiede, con Cicchitto e Capezzone, di «superare la cultura del giustizialismo», un modo come un altro per chiamare tutti a raccolta contro i giudici.
Dalle parti del Nazareno si ribadisce, invece, che nessuno pensa a un complotto dei magistrati contro il partito. Ma ci si sente un po’ accerchiati, messi nel mirino dai giornali.
Una sindrome che potrebbe concretizzarsi in un’iniziativa senza precedenti, tanto che se ne sta ancora verificando la fattibilità: una class action contro i denigratori. Comunque, assicura il segretario, «non ci faremo intimidire»: ovvero, come dice anche la lettera di martedì al Corriere, nessuna «timidezza» nell’affrontare la questione morale.
A Bersani arriva un sostegno forte dal vicesegretario Enrico Letta, il quale afferma che la reazione del segretario «è quella di tutto il Pd», e da Dario Franceschini, che condivide totalmente l’esternazione bersaniana. Ma non da Paolo Gentiloni di MoDem: l’idea della class action, dice su Facebook, «non l’ho proprio capita: quando in casa nostra ci sono violazioni dell’etica pubblica vanno denunciate con severità, al di là delle forzature dei giornali che se ne occupano. Cerchiamo di non scambiare le cause con gli effetti».
Per Rosy Bindi, invece, è giusto reagire così per evitare che si delegittimi tutta la politica. A complicare le cose una dichiarazione di Filippo Penati che, invece, se la prende con i magistrati osservando che il fascicolo relativo all’acquisto della Milano-Serravalle da parte della Provincia era a loro disposizione «da 6 anni». Come dire: perché esce ora?
da Europa Quotidiano 28.07.11