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“Redditi d’Italia. Cambiare vita non è possibile”, di Stefano Lepri

L’Italia è un paese dove i poveri restano poveri e i ricchi restano ricchi. Quella che tecnicamente si chiama «mobilità sociale» è più bassa che altrove. Risultava già da parecchie analisi; ma l’ultima, dovuta a un economista della Banca d’Italia, Andrea Neri, fa sospettare che questo difetto stia peggiorando. Nel confronto tra due decenni parzialmente sovrapposti, 1989-1998 e 1995-2004, «emerge una diminuzione nel livello di mobilità osservata».

Dividendo le famiglie italiane in quattro classi di reddito, nel periodo 1995-2004 solo il 13% sono riuscite a passare alla classe superiore; l’11% sono precipitate indietro. Durante l’ultima fase per la quale esistono dati precisi, dal 2000 al 2004, l’87% delle famiglie che erano nella prima classe, la più povera, vi sono rimaste; e addirittura il 98% di chi era nella seconda non si è mosso. Lo scarso rimescolamento è avvenuto quasi tutto tra le due classi più alte. Lungo tutto il decennio 1995-2004, tre quarti dei più poveri (prima classe) sono rimasti poveri, e tre quarti esatti dei più ricchi (quarta classe) sono rimasti ricchi. Quello di Andrea Neri è uno studio che non impegna la responsabilità dell’intera Banca d’Italia; ma, dettagli a parte, la scarsa mobilità sociale – effetto e causa insieme di un cattivo funzionamento dell’economia – compare spesso nelle analisi dei dirigenti della Banca.

Uno degli strumenti principali per farsi avanti in una società moderna è lo studio. E’ normale che i laureati guadagnino più dei diplomati e questi più di chi ha solo fatto la scuola inferiore. Una stranezza del nostro paese, ha notato di recente il vicedirettore generale della Banca d’Italia Ignazio Visco, è che la sua struttura produttiva «assorbe laureati con fatica e li remunera peggio che in altri paesi». C’è poco incentivo a studiare; inoltre la cattiva qualità media degli studi forse spinge le imprese, quando assumono, a guardare più alla famiglia di origine che ai voti.

La speranza di salire nella scala sociale è un grande motore per l’economia. Un paese dove contano solo la famiglia, le raccomandazioni, o la politica, cresce meno. Il mito americano, per l’appunto, fa sognare a tutti il passaggio from rags to riches, dagli stracci alla ricchezza. In realtà recenti studi farebbero pensare che la società americana sia sì inclusiva (tale da permettere a un immigrato di diventare capo azienda, o a un cittadino dalla pelle scura di diventare presidente) ma non tanto mobile dalla povertà al benessere.

Contrariamente al mito, risulta che negli Usa un figlio di poveri ha solo l’1% delle probabilità di andarsi a collocare tra il 5% più ricco della popolazione; un figlio di ricchi il 22%. Studi recenti sostengono che la più alta mobilità sociale non si ha affatto negli Stati Uniti, ma nei paesi dell’Europa del Nord e nel Canada, dove lo Stato sociale funziona, con un minimo di prestazioni gratuite per tutti e una congrua indennità di disoccupazione.

Confronti precisi sono difficili, certe volte i risultati sono diversi, ma l’Italia in queste classifiche si piazza sempre male. Secondo uno studio recentissimo dell’Ilo, l’Ufficio internazionale del lavoro (branca dell’Onu) durante gli ultimi 15 anni le disuguaglianze tra ricchi e poveri nel nostro paese sono cresciute più che negli altri principali paesi d’Europa, Gran Bretagna esclusa. Più che altrove da noi ristagna il potere d’acquisto dei salari, fermo dal 1988 e il 2006.

La Stampa, 16 febbraio 2009