Tra gli imprenditori del Nord-Est il consenso per Berlusconi crolla al 13%
È come il film in cui Bill Murray si svegliava tutte le mattine per rivivere la stessa giornata. Gli imprenditori del Nordest non riescono a cambiare idea sulla fine della crisi. Il 32 per cento spera di uscirne entro dodici mesi. Ma è la stessa percentuale del 2010, quando era il 30,2 per cento. Il rapporto della Fondazione Nord Est per il 2011 presentato ieri a Padova ne deduce che la riemersione dalle secche della crisi viene continuamente spostata in avanti, «come se la dimensione dell’incertezza avesse congelato la situazione». Come in un incubo. Anche l’esigua minoranza che pensa che ne stiamo uscendo è sempre la stessa: il 13,2 per cento contro il 10 di un anno fa.
Forse a questo infernale, eterno presente contribuisce il fatto che gli imprenditori che animano quest’area nordorientale del paese, la «Germania d’Italia» come la definisce anche il rapporto curato dal sociologo dell’Università di Padova Daniele Marini, si sentano, piuttosto, come in Belgio. Ormai da anni senza un Governo. A conferma, un sondaggio della Fondazione ha intercettato tutta la rabbia e il senso di abbandono. Ormai soltanto il 13,6 per cento degli imprenditori nordestini ha fiducia nel governo Berlusconi. Appena un anno fa era quasi il triplo: il 33,9 per cento. E nel primo anno postelettorale era più della metà, il 56,7 per cento.
Un sondaggio tanto più bruciante se confrontato con quello dell’anno più litigioso del governo Prodi, il 2007. Allora la fiducia degli imprenditori nell’esecutivo di centrosinistra era già a un minimo storico, al 17 per cento, ma Berlusconi ha letteralmente polverizzato il record del suo predecessore. Un mood che si registrava anche nella folta platea di industriali venuta alla presentazione del rapporto che ha interrotto più di una volta con gli applausi l’ospite principale, Romano Prodi. Sornione, consapevole dell’atmosfera da contrappasso, ha detto «di sentirsi libero di dire ormai tutto, visto che sono in pensione».
Ma poi l’ex presidente del Consiglio ed ex presidente della Commissione europea ha fornito una fotografia nitida del brutale attacco dei mercati al sistema Paese: «Penso che ci sia illusi per troppo tempo. La speculazione fa semplicemente il suo mestiere: cerca la parte debole di un sistema. E l’Italia ha accumulato molte debolezze in questi anni». Quando è sceso dal palco, ad accoglierlo sorridenti per stringergli la mano erano in molti, tra l’altro anche Marina Salomon e Massimo Carraro. L’ad di Morellato, traduceva l’umore: «attenzione: non è una questione di destra o sinistra. Qui c’è un fastidio enorme per un sistema che non riesce mai a riformare se stesso, a questo Governo, in particolare, che ci ha abbandonati. Anche in questo momento drammatico». E la bufera a Piazza Affari, chiosa intelligentemente la Salomon, imprenditrice di lungo corso, «è un guaio ulteriore, perché in Italia c’è un problema dimensionale delle imprese che raramente si quotano: non danno fiducia al mercato».
Soprattutto, il rammarico che si leggeva in faccia agli industriali in platea e si coglieva nei commenti – quando lo sloveno Crtomir Spaçapan ha detto che lunedì si è dimesso il presidente del Parlamento un brusio ha attraversato la sala e s’è sentito un «speriamo che qualcuno si dimetta anche qua» – è che il mercato punisce l’Italia per lo stesso motivo per cui gli industriali hanno imparato da tempo ad arrangiarsi da soli: l’assenza della politica.
È in atto da tempo quella che già l’ex sindaco di Trieste Riccardo Illy, ospite della presentazione di ieri, definì anni fa una «secessione silenziosa» delle imprese, nel suo Così perdiamo il Nord. Nel rapporto sul Nord Est si legge che «a fronte di un ambiente istituzionale sostanzialmente statico, dove cioè le riforme auspicate non prendono corpo, la pubblica amministrazione non si ammoderna, il livello di tassazione rimane inalterato, le precondizioni favorevoli alla vita di un’impresa si riducono a tal punto da suggerire ad alcune di collocarsi in altri paesi dove l’ambiente fiscale e amministrativo permette loro di rimanere competitive». E i dati parlano chiaro: aprire uno stabilimento all’estero significa per il 18,4 per cento un forte ridimensionamento dell’organico in Italia; per il 5,4 per cento addirittura la chiusura totale degli stabilimenti nel nostro Paese. Una cifra che rappresenta quasi il totale degli abbandoni, che ammonta nel nostro Paese complessivamente al 6,6 per cento.
da www.lastampa.it
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