«Basta un poco di zucchero e la pillola va giù, tutto brillerà di più…». Cantava nel 1964 nel film Mary Poppins di disneyana memoria una giovane Julie Andrews. Una lezione che il ministro dell’economia Giulio Tremonti ha imparato bene tanto che c’è chi ipotizza che abbia fatto scattare una trappola ad hoc nella manovra triennale, giunta ieri dopo quattro giorni di riflessione al vaglio del capo dello stato. Uno specchietto per le allodole, ovvero il blocco totale e parziale della rivalutazione delle pensioni superiori al minimo a cominciare da chi percepisce 1.428 euro lordi al mese.
Una misura così iniqua (tanto più che la mancata perequazione è disposta per anni di inflazione in aumento) da attirarsi le critiche non solo dei sindacati (tutti), ma anche delle forze politiche di maggioranza (da Cazzola a Storace) e di opposizione. Un taglio tanto più amaro e a danno dei più deboli perché arriva a fronte di un mega regalo contenuto, sempre nella manovra, a favore di alcuni. A cominciare dal presidente del consiglio che, in virtù dell’articolo 37 del decreto, potrà beneficiare del blocco dell’immediata esecutività delle condanne in appello superiori ai 20 milioni dietro il pagamento di “idonea cauzione”. Un regalino da appena 750 milioni di euro (stavolta netti) per Fininvest condannata in primo grado a risarcire Cir nell’ambito della vicenda del Lodo Mondadori.
E se il blocco sulle pensioni, per un triste e malvagio scherzo, fosse lo zucchero che c’è nella pur amara manovra a firma di Tremonti? Ovvero la possibilità offerta al parlamento di togliere il taglio del 55% delle rivalutazione per le pensioni comprese nello scaglione tra i 1.428 e i 2.380 euro mensili lordi o persino di eliminare il blocco per gli assegni previdenziali superiori ai 2.380 euro mensili lordi. In cambio gli italiani dovranno ingoiare l’anticipazione al 2014 dell’aggancio dell’età pensionabile alle speranze di vita, l’aumento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato dal 2020 (un principio più che una misura per fare cassa visto che andrà a regime nel lontano 2032). Oltre a qualche regalino a chi potrà dilatare, come ha spiegato la capogruppo Pd in commissione giustizia della camera Donatella Ferrani, il regolare corso della giustizia. Ma c’è di più.
Il polverone sulle pensioni oscura il fatto che nella manovra non c’è nulla per la crescita, presupposto per abbattere il debito pubblico. Ad insinuare il dubbio che si tratti di una mossa calcolata inserita a bella posta nella manovra con l’idea di spaventare, salvo poi strappare il silenzioassenso su misure pesanti, è una lettura approfondita della manovra. Per Pier Paolo Baretta, capogruppo Pd in commissione bilancio della camera, si tratta di una mossa «palesemente fastidiosa al punto da portare a credere che possa essere truccata». E se per Baretta l’intera manovra rischia di essere inefficace tra rinvii di promesse e deleghe tanto più che «non c’è uno scarto di fantasia o una direzione di marcia», i sindacati esprimono un’unanime condanna per i sacrifici chiesti a chi percepisce oggi trattamenti previdenziali. E così mentre la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso parla di una «divaricazione tra la realtà e la politica» tanto che «si taglia e non si pensa a una prospettiva», la condanna per i tagli alla rivalutazione delle pensioni è arrivata anche dai numeri uno di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Se ieri anche le Acli hanno bocciato la mossa del governo e si sono dette pronte alla mobilitazione, il segretario generale aggiunto della Cisl Giorgio Santini sulla rivalutazione delle pensioni ha spiegato che la misura va cambiata («trovino i soldi da qualche altra parte») e il leader Bonanni ha annunciato al Tgr3 la mobilitazione della Cisl.
D’altra parte nel provvedimento che presuppone per gli italiani misure lacrime e sangue (tagli a comuni e regioni e nella sanità), se non tutte nell’immediato almeno a partire dal 2013, sono diverse le misure ad effetto che servono a coprire un nulla di fatto. A cominciare dal taglio dei costi della politica che dalle prossime elezioni dovrebbero finire per portare gli stipendi dei politici, dei magistrati, della corte costituzionale e delle autorità indipendenti nella media europea. Misure alle quali non crede lo stesso Tremonti, perché possono essere aggirate in virtù del principio costituzionale di autonomia.
In vista di uno scontro che si preannuncia esasperato, il senato si prepara a un luglio di fuoco perché nel puro stile Tremonti a palazzo Madama si sta creando un imbuto. Il senato – che dovrà convertire in legge entro la settimana un blindatissimo decreto sviluppo – riceverà la prossima settimana la manovra che, se tutto va bene, sarà discussa e approvata entro il mese salvo poi passare alla camera per un passaggio niente più che formale prima della pausa estiva. Il metodo Tremonti di utilizzare una camera alla volta sarà rispettato anche in questo caso. Tre i temi caldi dello scontro per Luigi Lusi, vicepresidente della commissione bilancio del senato: patto di stabilità, pensioni minime e riduzione del debito pubblico.
da Europa Quotidiano 05.07.11
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“Manovra salva-Berlusconi”, di Liana Milella
Il testo modificato a Palazzo Chigi. L´Anm: incostituzionale. Bersani: immorale. Caos sugli incentivi per le energie rinnovabili e stangata agli statali. Spunta una norma per bloccare il risarcimento Mondadori-Cir. Stop di Napolitano. Il governo ha inserito nella manovra una norma che consentirebbe alla famiglia Berlusconi di non pagare i 750 milioni di euro che, come stabilito dalla sentenza di primo grado sul lodo Mondadori, deve alla Cir di De Benedetti. Ma il Quirinale si prepara a stopparla dopo un´analisi «come sempre attenta» del pacchetto. «È un insulto al Parlamento», ha detto il Pd. Mentre l´Anm parla di una misura «incostituzionale». Intanto è caos sugli incentivi per le energie rinnovabili.
Un colpo di mano. All´ultimo momento utile. Poche mezz´ore prima che la manovra lasci le stanze del governo per approdare al Quirinale. Un comma, quattro righe, a misura di Berlusconi contro la Cir di De Benedetti. Scritto proprio dai tecnici del ministero della Giustizia, di cui è tuttora titolare il segretario del Pdl Angelino Alfano. Quello che appena venerdì scorso ha teorizzato che il suo dev´essere «il partito degli onesti» e che ieri ha rinunciato a presenziare a un convegno dove era presente lo stesso De Benedetti. Ebbene, il partito degli onesti ha prodotto l´articolo 37 della manovra, il comma 23, la lettera B. Per legge si stabilisce che, per condanne d´appello che superano i 20 milioni di euro, la sospensione in vista della Suprema corte è obbligatoria. Non c´è, come adesso, alcuna discrezionalità del giudice nel concederla. Del pari, poco sopra, si fissa l´omologo principio che tra primo e secondo grado, se la condanna arriva a dieci milioni di euro, ugualmente la parte condannata non paga. Basta una fidejussione.
Si annida qui “l´aiutino” per salvare la Finvest dal pagare ad horas quanto dovrebbe riconoscere alla Cir qualora i giudici dell´appello – chiusi in camera di consiglio giusto in queste ore e con una sentenza prevista per il fine settimana – dovessero confermare la sentenza di primo grado. I famosi 750 milioni di euro decisi da Raimondo Mesiano, il magistrato oggetto subito dopo di una puntata della “macchina del fango”, per via dei suoi calzini celesti, filmati e riprodotti da Canale 5 quasi fossero la prova di un´anomalia comportamentale.
Era da giorni che, nella manovra, si sospettava potesse entrare la norma per salvare Berlusconi da una sentenza che, dicono dal suo entourage, metterebbe in gravi difficoltà economiche la sua azienda. Dalle menti giuridiche del premier è scaturito un intervento quasi chirurgico. Per spiegarlo, una premessa è d´obbligo. Nel processo civile, al contrario di quello penale dove si aspetta la Suprema corte, le sentenze sono immediatamente esecutive, a patto che il giudice, su richiesta delle parti, non decida di sospenderle. Così è avvenuto tra il primo e il secondo grado nel processo Cir-Finivest, dopo la sentenza Mesiano, tant´è che Berlusconi non ha versato una lira alla Cir.
Qui si decide di operare. Con un metodo che i berluscones hanno già sperimentato. Quello di togliere al giudice la sua libertà di interpretazione, di valutazione, infine di decisione. E allora: ecco i due articoli del codice di procedura civile, il 283 e il 373, a portata di mano per essere modificati. Il primo stabilisce che, tra il processo di primo grado e quello di appello, se il giudice individua «gravi e fondati motivi» per sospendere l´esecuzione, lo decide, imponendo o meno una cauzione cautelativa. Stesso principio per l´articolo 373: se dall´esecuzione della sentenza d´appello «deriva grave e irreparabile danno», il giudice può sospenderla.
Quel «può» cambia in «deve». E il gioco è fatto. Il giudice «è» obbligato a sospendere. Al primo articolo, il 283, si aggiunge che «in ogni caso» è concessa la sospensione «per condanne di ammontare superiore a dieci milioni di euro». Salvo «idonea cauzione». Stesso meccanismo per l´articolo 373, quello cucito addosso a Berlusconi e al suo processo. Tra appello e Cassazione la sospensione è «in ogni caso concessa per condanne di ammontare superiore a 20 milioni». Un´altra “salva Silvio” su misura. In spregio, come dicono subito i giuristi, alla disparità di trattamento. E in barba ai poveri Cristi che continueranno a pagare pronta cassa se il giudice non concederà loro una deroga.
La Repubblica 05.07.11
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“Cucinata all´insaputa di Tremonti”, di FRANCESCO BEI
Ora Napolitano vuole vederci chiaro. Dopo aver scoperto la sgradita sorpresa nella bozza del decreto trasmesso da palazzo Chigi, il capo dello Stato ha messo al lavoro tutto il suo staff giuridico per «un´attenta e rigorosa valutazione». Che porterà a stendere un parere pesante e motivato su quella che l´opposizione ha già ribattezzato “norma ad aziendam”.
Anzi, Napolitano la norma contestata avrebbe già deciso di cancellarla dal decreto. Questi sostanziosi rilievi del Colle saranno poi girati a palazzo Chigi, contando su una modifica del testo. Insomma, Napolitano non intende restare con le mani in mano di fronte a un caso di conflitto d´interessi, con il presidente del Consiglio che inserisce di soppiatto, nella manovra a tutela dei conti pubblici, un codicillo per mettere al riparo la sua azienda dalla sentenza sul lodo Mondadori.
Riflettendo sulla genesi della norma, al Quirinale hanno maturato una convinzione: il comma salva-Fininvest non c´era nel testo uscito dal ministero dell´Economia. Ergo, una manina l´ha inserito dopo. Precisamente nel passaggio che c´è stato ieri da via XX Settembre a Palazzo Chigi, prima che il decreto venisse trasmesso al Colle per la firma. Una ricostruzione che coincide con quanto si sussurra nel governo, dove solo in pochissimi erano a conoscenza del blitz che stava per compiersi. Tra i pochi, Giulio Tremonti, che ha tentato con ogni mezzo di opporsi. Gli uomini del Tesoro, del resto, la considerano «una norma suicida», che non ha alcuna possibilità di essere approvata. «Questa cavolata – spiegano fonti del ministero dell´Economia – è stata voluta direttamente dal Guardasigilli. È uscita dalla filiera Berlusconi-Ghedini-Alfano. L´hanno cucinata interamente loro, pur essendo chiaro che non ha alcuna coerenza con l´oggetto del decreto». Inoltre, aggiungono i tecnici di Via Venti Settembre, si tratta di una legge «devastante», perché «introduce il concetto di insolvenza nel privato». Niente da fare, di fronte all´insistenza di Berlusconi. «Mi prendo io la responsabilità di tutto – ha tuonato il Cavaliere -, la porto io al Colle e la gestirò io la trattativa con il capo dello Stato».
Ma sono in molti, nella maggioranza, a non aver digerito un provvedimento che «appare come l´ennesima legge a favore della casta, in un momento in cui tagliamo le pensioni agli italiani». È dunque falso che la norma fosse già stata discussa in Consiglio dei ministri. Diversi testimoni, presenti alla riunione del governo di giovedì sera, non ricordano affatto questo particolare. È vero invece che la trappola, congegnata da Niccolò Ghedini, avrebbe dovuto scattare in seguito, presentandosi sotto forma di un emendamento parlamentare. Una tecnica già sperimentata in passato per le norme ad personam sulla giustizia. Ma la fretta ha spinto il consigliere giuridico del Cavaliere a forzare la mano.
La Corte d´appello di Milano ha fatto sapere infatti di essere pronta ad emettere la sentenza sul lodo Mondadori e la decisione è attesa per sabato. Per Berlusconi si tratta di una corsa contro il tempo per non pagare la Cir di De Benedetti. ««A quello lì – si è sfogato ancora in queste ore il premier – i soldi non li darò mai, piuttosto li devolvo in beneficenza». Un´ostinazione che l´ha portato a dare il via libera alla forzatura di Ghedini, contro il parere di Tremonti e di Gianni Letta.
L´intenzione di Berlusconi, al contrario, è di resistere a tutti i costi alla moral suasion di Napolitano, confermando la norma e piazzando la fiducia per evitare modifiche. «Spiegherò a tutti – ha preannunciato il premier – che si tratta di respingere un´aggressione politica portata avanti con ogni mezzo». Il timore, a questo punto, è che Napolitano si attardi troppo nella controfirma, dando ai giudici il tempo di emettere la sentenza e vanificando così il blitz. Non a caso ieri sono già stati attivati i canali diplomatici tra Gianni Letta e il Colle. Gli uomini di Napolitano hanno in realtà preavvertito il sottosegretario che quel “codicillo” proprio non può andare bene. E il braccio destro del Cavaliere sta tentando una mediazione sapendo però che su quel campo non c´è più nulla da fare.
La controffensiva è stata discussa in una riunione di Berlusconi con i figli alcuni giorni fa. Un vero consiglio di famiglia. Del resto era stato lo stesso Berlusconi a confermare l´oggetto del summit: «Ne parliamo tutti i giorni, è una cosa che incombe». Allarme rosso dunque, per la possibile «mazzata» in arrivo (definizione di Pier Silvio Berlusconi). Una eventualità che ha spinto nei giorni scorsi Fininvest a non attribuire alcun dividendo ai soci per l´esercizio 2010, nonostante un utile netto di 160 milioni.
La Repubblica 05.07.11
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“Fanno cassa sul welfare”, di Cesare Damiano
Una manovra di tagli, ingiusta, per tanti aspetti odiosa, del tutto inadeguata alle necessità di rilancio dell’economia. Per cercare di far quadrare i conti pubblici disastrati, risultato di una gestione sciagurata della crisi basata sui “tagli lineari” di Tremonti, Berlusconi non ha saputo fare altro che tornare a colpire chi già paga: i lavoratori, i pensionati, i malati, gli automobilisti. E dopo essersi vantato (mentendo) di aver tenuto a galla il paese senza mettere le mani nelle tasche degli italiani, le mani ora le affonda senza alcun ritegno e senza ombra di dubbio. Il testo definitivo è ancora in fase di stesura, ma il quadro è chiaro. La manovra punta a far cassa sullo stato sociale e la tanto sbandierata riforma fiscale va in senso opposto a quello che si è cercato di far credere: toglie risorse ai redditi più bassi per destinarle a quelli più elevati. Le aliquote – tre in tutto – ridisegnate da Tremonti sono degne infatti di un Robin Hood alla rovescia.
Minano il principio basilare della progressività dell’imposizione e cancellano ogni possibilità di redistribuzione. Eliminare anche l’aliquota più alta significa regalare ogni anno qualche migliaio di euro a coloro che hanno redditi sufficienti per difendersi dagli attacchi della crisi economica. A scapito dei più deboli.
Toccare contemporaneamente le pensioni, riducendo il loro potere d’acquisto, oltre a far male all’economia del paese, vuol dire colpire i redditi di milioni di persone collocate nella fascia sociale del ceto medio-basso, che hanno già subito processi di progressivo impoverimento.
Forse Tremonti non lo sa, ma toccare le pensioni tra i 1.400 e i 2.400 euro lordi al mese non vuol dire colpire i redditi dei cittadini più ricchi, ma quelli degli operai.
Le cifre ci dicono che con la manovra – per pensioni nette che partono dai 1.050 euro mensili, guadagnate duramente dopo 35- 40 anni di lavoro in fabbrica – si diminuisce del 55 per cento una indicizzazione già debolmente collegata all’andamento del costo della vita. L’obiettivo è di risparmiare nei prossimi due anni, a spese dei pensionati, almeno quattro miliardi e mezzo. Che potrebbero superare i sei miliardi nel caso l’inflazione dovesse mantenere gli attuali trend di crescita. Un provvedimento non proprio all’insegna dell’equità.
Non solo. Oltre alla perdita del potere d’acquisto, si dovranno fare i conti anche con l’aumento dell’età pensionabile dovuto alle diverse misure varate negli ultimi anni. A differenza di quanto promesso dal ministro Sacconi, che ha continuato a giurare che non si sarebbero toccate le pensioni, il centrodestra ha allungato di un anno la finestra di uscita anche per coloro che hanno maturato i 40 anni di contributi e ha introdotto – anticipando ora di un anno la sua operatività effettiva – il collegamento dell’età pensionabile alle aspettative di vita. Questo, dopo aver portato a 65 anni l’età pensionabile delle dipendenti della pubblica amministrazione senza aver previsto alcuna redistribuzione dei risparmi ottenuti a favore delle donne.
Il tutto senza dimenticare gli annunciati tagli alla spesa sanitaria e l’introduzione di nuovi ticket; un nuovo stop (per il quarto anno) degli stipendi dei dipendenti della pubblica amministrazione.
E senza dimenticare l’aumento delle accise sulla benzina, che già si è scaricata sui consumatori con una raffica di aumenti al distributore, o l’introduzione di nuovi pedaggi.
Niente a che vedere con quanto a suo tempo fatto in Finanziaria dal governo Prodi. Che aveva ammorbidito lo “scalone Maroni”, varato la delega per il pensionamento anticipato a favore di chi fa lavori usuranti, congelato sì le pensioni, ma quelle d’oro, (otto volte il minimo), introdotto la “quattordicesima” per oltre tre milioni di pensionati poveri e abbassato da sei a tre anni la franchigia per la totalizzazione dei contributi.
Una manovra attuata in senso redistributivo, di segno completamente diverso rispetto a quella targata Berlusconi. Una manovra che ha l’obiettivo di far cassa assestando un colpo micidiale allo stato sociale. Questo, il Pd non lo permetterà. Far quadrare i conti è necessario, ma servono obiettivi, economici e sociali, improntati all’equità e allo sviluppo del paese che Tremonti non ha saputo delineare, anche perché preda delle gravi contraddizioni della sua maggioranza.
da Europa Quotidiano 05.07.11