«Vent’anni fa lavoravo ancora all’Università di Perugia, in un laboratorio di 22 metri quadri e nessuna posizione accademica. Vivevo, con i miei collaboratori, dei finanziamenti che si riuscivano a ottenere da qualche agenzia» , dichiara Pier Giuseppe Pelicci, che attualmente svolge ricerca all’Istituto Europeo di Oncologia fondato da Umberto Veronesi, ed è titolare di Patologia all’Università degli Studi di Milano. «All’inizio degli anni Novanta» , continua Pelicci, «noi dall’Umbria avevamo pensato di sfidare gli dei dell’Olimpo mandando un articolo a “Cell”, una delle più importanti riviste di biomedicina» . La sede di allora non disponeva nemmeno degli animali necessari per controllare la teoria, come esigeva ovviamente qualsiasi seria rivista scientifica. Pelicci e i suoi ne vennero a capo ricorrendo alla nonna di una ricercatrice, che allevava conigli in campagna. «Così prendemmo il coniglio della nonna e lo immunizzammo» . Il protocollo vuole che dopo un paio di mesi si raccolga il suo sangue e si verifichi se contiene qualche anticorpo. In caso positivo si aspetta un altro mese e si fa un secondo prelievo. Ebbene, il primo controllo dette risultato positivo, ma il successivo no. Tutto sbagliato? Non esattamente: una domenica la nonna aveva preso inavvertitamente proprio quel coniglio e se lo era mangiato! «Fummo costretti a ricominciare daccapo» . Infine, Pelicci ha vinto la sua sfida: «Cell» accettò l’articolo, in cui si annunciava l’isolamento di un gene (tecnicamente noto come SHC) «molto importante perché coinvolto nel controllo della proliferazione cellulare» . Oggi il gruppo che Pelicci ha costituito tra Perugia e Milano lavora attivamente su quello che i media ormai chiamano «il gene che controlla la vita» . Ma l’aneddoto è utile per capire la condizione «quasi medioevale» in cui versa la ricerca nel nostro Paese: disponiamo di «qualche castello, robusto e ben attrezzato, capace di reggere qualsiasi assedio, ma tutt’intorno solo campagna coltivata da contadini esposti a ogni angheria» . Questa testimonianza è inclusa in un volume di interviste, raccolte da Pietro Greco che s’intitola I nipoti di Galileo (Baldini Castoldi Dalai, pp. 259, e 18). Giornalista scientifico assai noto, Greco interroga inoltre, circa questo nostro medioevo scientifico, Alessio Figalli, matematico di 26 anni che insegna in un’università Usa («in Italia scarseggiano finanziamenti e meritocrazia» ); il chimico Vincenzo Balzani, vero e proprio profeta del solare («da noi le diseguaglianze danneggiano la coesione sociale» ); l’ingegnere Bruno Siciliano, esperto mondiale di robotica («potremmo attrarre ricercatori da tutto il mondo» , ma la nostra burocrazia «incomprensibile» respinge chi viene dall’estero, specie se extracomunitario); Giacomo Rizzolatti, il neuroscienziato che con il suo gruppo di Parma ha scoperto i neuroni specchio («uno dei maggiori disastri delle nostre università è che per anni non succede niente, e poi arriva una sanatoria e tutti dentro» ). Insomma, mancanza strutturale di programmazione, inerzia dei politici, difficoltà di comunicazione tra il mondo della cultura scientifica e quello dell’economia: è un pesante giogo del passato da cui sembra difficile liberarsi. Dopotutto, siamo il Paese che ha dato alla luce Galileo, ma che ha assistito alla sua condanna. E il «processo alla scienza» non pare ancora finito. Dobbiamo per questo buttarci l’ennesima croce addosso? Per Lucia Votano, prima donna fisico a dirigere il Laboratorio Nazionale del Gran Sasso, i centri di eccellenza italiani potranno collaborare sempre più proficuamente con la Comunità Internazionale solo se sapranno «rinnovarsi adeguatamente con forze fresche» . La preoccupazione principale resta «il futuro dei giovani» . Aggiunge la biologa Elena Cattaneo, una protagonista della ricerca sulle staminali, che coloro che fanno scienza non solo hanno il diritto di «pretendere la massima trasparenza nell’allocazione dei fondi» , ma anche il dovere di resistere e lottare «se la loro libertà è messa a rischio» . Dunque ribellarsi, oltre che legittimo, è essenziale alla vita democratica della società della conoscenza.
Il Corriere della Sera 04.07.11