Il richiamo della paura, del fuggi fuggi dalla sanità pubblica, lo hanno lanciato i cinesi. “Hanno ricominciato a fornire generalità false – spiegano all’accettazione del pronto soccorso dell’ospedale Molinette di Torino – Loro sono i più attenti a ciò che si dice attorno agli stranieri: se si nascondono, allora vuol dire che tutti si stanno agitando. Quando c’è allarme, cambiano una, due, tre identità. E ne daranno ancora una diversa quando torneranno per un controllo o per un esame. Lo fanno anche le donne incinte o che devono partorire”. Llukani invece, l’albanese prepotente e paraplegico che girava sulla sedia a rotelle nei reparti del Cto, sono andati ad arrestarlo in corsia. Vecchie storie con la giustizia italiana. Il fatto però che fosse clandestino, un fantasma per il servizio sanitario nazionale, e che in pochi riuscissero a sopportare la sua arroganza, non c’entra nulla: per due anni Llukani è rimasto lì, nell’ospedale traumatologico della città, senza che a nessun medico e a nessun infermiere passasse mai per la testa di chiamare la polizia o i carabinieri. “E non lo faremo neppure dopo, quando sarà entrata in vigore quella norma che abolisce il divieto di denunciare gli irregolari”, ripetono gli uomini e le donne con il camice bianco sul quale ora è comparso un adesivo rosso con una frase che pare la rivisitazione dell’antico giuramento d’Ippocrate: “Non siamo spie!”.
In via Cottolengo, alle spalle del mercato multietnico di Porta Palazzo e a pochi passi dalla “cittadella della carità” fondata da uno dei santi sociali torinesi, c’è un ambulatorio medico di volontari, oltre cento tra medici, infermieri e impiegati, che è intitolato alla lettera pastorale del cardinale Michele Pellegrino, “Camminare insieme”, ma che è stato fondato da Corrado Ferro, socialista, pensionato ed ex segretario regionale della Uil.
Lì, da sempre nella storia della Torino extracomunitaria, si presentano quelli che non hanno il permesso di soggiorno e che hanno più paura degli altri. Venerdì scorso, quando i Tg e i giornali hanno messo in moto il tam tam (“I medici dovranno denunciare i clandestini”), la sala d’aspetto è rimasta vuota. “Per la prima volta in 15 anni – racconta Ferro – E dire che abbiamo assistito gratis più di 30 mila persone, fornito 110 mila prestazioni mediche con una media di 50 passaggi al giorno, dal lunedì al sabato mattina, 7.500 ogni anno”. Il calo però era già cominciato dopo l’estate, “quasi il 20 per cento in meno, perché da quei giorni sono scattate le voci e la diffidenza”. Ora quelli di “Camminare insieme” stanno preparando un cartello (“Noi non denunciamo nessuno”) da affiggere alla porta. “Lunedì – dice la coordinatrice, Cristina Ferrando – sono arrivati, uno dietro l’altro, un marocchino e una donna albanese. Lui doveva essere mandato in ospedale, per una polmonite: ha voluto andare a piedi perché non si fidava a salire sul tram e temeva di incappare nella polizia. La ragazza è al secondo mese di gravidanza e fa la badante. Ci ha chiesto di poter venire la domenica, quando siamo chiusi: è terrorizzata che nella casa dove lavora scoprano tutto e la caccino”.
Ma come sono le notti “clandestine” degli extracomunitari senza volto, nei pronto soccorsi dove la paura dell’espulsione è piombata assieme alla notizia di una legge che in realtà non esiste ancora? Per capirlo, bisogna scendere lungo la rampa che da corso Bramante conduce nel pronto soccorso sotterraneo delle Molinette, uno degli ospedali più grandi d’Italia. Il Cto dove era ricoverato Llukani l’albanese è a un chilometro in linea d’aria, in questa striscia che costeggia il Po e fronteggia la collina con le ville della Torino ricca: una disordinata “città della salute” dall’urbanistica confusa e dall’architettura affastellata, che ospita anche l’ospedale infantile e quello ginecologico. Quattro diversi dipartimenti di pronto soccorso, uno dopo l’altro. Sono le 22,30 di sabato scorso: dentro, nella sala visite di medicina, la dottoressa Stefania Battista gestisce un turno difficile, affollato come non capitava da Natale. Ripete il “mantra” deontologico che lei e i suoi colleghi hanno fatto scattare subito dopo il voto del Senato, per difendere la dignità di una professione. “Per noi non cambia nulla – assicura – non faremo i poliziotti. Medici siamo e medici restiamo: io devo occuparmi solo della salute di chi si affida al pronto soccorso. Non saremo delatori”. Qualche ora più tardi, la mattina della domenica, i dati del computer spiegheranno che in quel turno le richieste di cura sono state 62, ma solo tre quelle da parte di extracomunitari.
“Non c’è dubbio – commenta il professor Valerio Gay, docente di medicina d’urgenza e responsabile del pronto soccorso – questo è già l’effetto della paura: solo una settimana fa, gli immigrati erano di più. Credono che la nuova legge sia in vigore e non vengono più. Che cosa significa lo capiremo tra qualche mese…”. Che cosa capiremo, professor Gay? “Il pronto soccorso – spiega – è la “sentinella” della salute di una città. Qui scattano gli allarmi e si può porre rimedio a rischi improvvisi. Ha presente la tubercolosi? L’Istituto superiore di Sanità parla di 5 mila nuovi casi ogni anno e, perché si diffonda, basta che il malato respiri in un ambiente chiuso. E la meningite? Che cosa capiterà se i genitori clandestini, per paura, non ci porteranno più i loro figli che stanno male? Qui, in queste stanze, abbiamo scoperto il primo caso in Italia di febbre dei Balcani: sarà ancora possibile dopo?”.
Su, nel reparto di medicina d’urgenza collegato al pronto soccorso, è passata da poco la mezzanotte. Anche il dottor Franco Riccardini è di turno, come gli succede ormai da 20 anni. Fissa il monitor del computer e controlla i numeri: 48 passaggi, sei gli stranieri in attesa, ma contando anche tre romeni e un bulgaro che non hanno ancora fatto la pratica per l’iscrizione al servizio sanitario. “Mettere paura agli immigrati – dice – è un problema politico e, peggio ancora, lo è cercare di farlo usando noi medici. E siamo sicuri che si ribelleranno anche tutti i medici del Veneto leghista? E che cosa capiterà in Lombardia, dove la sanità pubblica è stata affidata a Comunione e Liberazione?”. La dottoressa Battista, negli ultimi quaranta giorni, si è imbattuta in due casi di tubercolosi contratta da extracomunitari: accadrà ancora? Riccardini, invece, sottolinea le tante cose assurde che potrebbero verificarsi: “Nasceranno sanità parallele, clandestine e che sfrutteranno i poveracci. E qui arriveranno malati che per giorni sono rimasti nascosti, aggravando le loro condizioni: lo Stato dovrà spendere ancora di più per curarli”.
Di storie come quella di Llukani, invece, al Cto ne vivono periodicamente. Un incidente d’auto, una caduta in un cantiere del lavoro nero, la schiena che si spezza per sempre e una vita segnata da una parola maledetta: paraplegico o tetraplegico. Poi la scoperta che quelli sono clandestini, intrasportabili, che non possono più essere rimpatriati. Falete, un marocchino di 40 anni, ormai vive qui e in quel modo da oltre sei anni. “Sono i veri sfortunati – racconta Virginio Oddone, medico legale – Non hanno parenti in Italia, non possono essere accolti nelle strutture pubbliche destinate per questo tipo di malati, non possono chiedere i danni a chi li ha investiti o ai datori di lavoro, non possono usufruire del fondo di solidarietà per le vittime della strada e neppure della pensione di invalidità”. Così restano al Cto, accuditi e salvati da chi li preserva da quella denuncia che i medici ritengono infame: “È un clandestino…”. Medici che, tra un reparto e l’altro, adesso si interrogano su che cosa diventerà il loro lavoro e se, un giorno, saranno mai costretti alla disobbedienza civile. “Perché se la clandestinità diventerà un reato – aggiunge Oddone – avremo, oppure no, l’obbligo di denunciarla? L’articolo 365 del codice penale dice che non dobbiamo fare il referto quando esso esporrebbe la persona che stiamo curando a un’incriminazione. Chissà se continuerà a valere. E che giustizia è mai quella che fa diventare colpevole di un reato una ragazza clandestina stuprata o un lavoratore clandestino vittima di un incidente sul lavoro solo perché si presentano in ospedale?”.
Le stesse cose che pensano Ferro e la dottoressa Laura Sacchi, responsabile sanitaria di “Camminare insieme”: “Questa riforma voluta dalla Lega è una pagliacciata. Il reato di immigrazione clandestina prevede una sanzione amministrativa: al massimo produrrà un foglio di via in più. Il risultato, invece, è di alimentare la paura che tiene lontano i malati”.
Al pronto soccorso delle Molinette e nel reparto d’urgenza, intanto, il via vai notturno dei pazienti non si ferma. Sono le due passate, il dottor Riccardini dà ancora un’occhiata al computer e poi si alza per andare a fare una visita. “Pensi un po’ – si congeda – negli stessi giorni in cui la maggioranza di governo dice di battersi per la vita, sceglie di varare una legge e di alimentare una paura che rischiano di far morire i clandestini”.
La Repubblica, 11 febbraio 2009