La Banca d’Italia trattata come la Rai. La scelta del nuovo governatore, dopo che quello in carica è stato chiamato a Francoforte a presiedere la Bce, condotta più o meno come se si dovesse trovare un nuovo direttore di tg (tra l’altro nemmeno questo il governo riesce a fare). Durissima contro il governo, la nota con cui il Capo dello Stato ha cercato ieri di riportare nei giusti canali istituzionali il difficile negoziato su Bankitalia covava da giorni.
Dall’Inghilterra dove si era recato per ricevere la laurea ad honorem a Oxford, Giorgio Napolitano ha seguito a distanza, con crescente imbarazzo, le polemiche sempre più velenose su via Nazionale, le molte dichiarazioni a vanvera registrate dai giornali, l’anomala convocazione di Mario Draghi, governatore uscente in partenza per la Bce, da parte di Berlusconi. E appena rientrato in Italia è intervenuto con la severità che ritiene necessaria su una questione così seria.
Per il Capo dello Stato non ha senso l’alibi di cui finora il governo s’è fatto schermo, la legge varata sei anni fa dopo le sofferte dimissioni di Antonio Fazio per l’inchiesta su Antonveneta, con il nuovo meccanismo di nomina che prevede una sorta di concerto tra Palazzo Chigi e il direttorio della Banca d’Italia sul nome del candidato individuato dal presidente del Consiglio. Berlusconi finora ha evitato di indicare un nome a via Nazionale perché teme che venga impallinato dal direttorio della Banca, il quale a sua volta s’è riunito solo per far notare che senza il candidato non può esprimere il parere richiesto dalla legge. Di qui una serie di ritardi, e da un paio di giorni, stando alle indiscrezioni, un rinvio definitivo all’autunno, visto che l’insediamento di Draghi a Francoforte è previsto per il primo novembre. Ciò che appunto ha convinto Napolitano, a cui spetta la firma finale sul decreto di nomina, a muoversi e a far sentire energicamente la sua voce.
L’idea che il rinnovo del vertice di un’istituzione così importante come la Banca d’Italia, una volta attivata la procedura di nomina, possa essere lasciato in sospeso – né più né meno come avviene periodicamente per le nomine Rai, soggette ad ogni leggero cambiamento di clima politico, e ridotte a un borsino delle quotazioni che ricorda le corse dei cavalli – è semplicemente fuori dalla realtà. La nuova legge sarà pure infelice, come molte leggi frutto di emergenze e di compromessi dell’ultima ora. Ma non è certo inapplicabile.
Se Berlusconi intende proporre un solo candidato, come sembra orientato a fare, avanzando il nome del direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli, è nel suo pieno diritto. Va detto che si tratterebbe di una candidatura autorevole, come quelle, alternative, del direttore generale di Bankitalia Fabrizio Saccomanni e dell’attuale membro italiano del Direttorio della Bce Lorenzo Bini-Smaghi. Ma se lo fa sapendo che sul nome del professor Grilli esistono riserve interne a via Nazionale, dovute, non alla persona, ma al fatto che è apparso chiaramente come il candidato del ministro dell’Economia Tremonti, il premier, prima, ha il dovere di esplorare a fondo queste perplessità. E proprio perché spetta a lui l’onere della proposta, o fare un nome diverso, o condurre informalmente una trattativa preliminare su più nomi, per arrivare a un accordo evitando alle istituzioni coinvolte nel procedimento di nomina la sensazione di un’imposizione.
Un negoziato chiaro, aperto e trasparente, ancorché riservato, vista la delicatezza del problema da risolvere: che parta dalla considerazione che tutti i candidati hanno le carte in regola per succedere a Draghi, che Palazzo Chigi non vuole a tutti i costi mettere un suo uomo in via Nazionale,ma arrivare alla scelta migliore e più condivisa. Si tratta semplicemente di rispettare lo spirito di una legge complicata, magari, ma esplicitamente mirata a far sì che la Banca d’Italia mantenga la sua indispensabile e connaturata autonomia. A farlo, inoltre, Berlusconi avrebbe tutto da guadagnarci: invece di apparire, come sembra, tirato da una parte e dall’altra e non in grado di arrivare a una decisione, se il prescelto non dovesse essere il candidato del ministro dell’Economia, o quello che appare tale anche a dispetto di se stesso, alla fine potrebbe dire a Tremonti che non è dipeso da lui.
La Stampa 01.07.11
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