Rosa o rosa pallido, la legge sulle quote è passata. È passato il principio che un Paese — soprattutto un Paese che si proponga di uscire da una lunga crisi — non può più permettersi di sprecare il 50 per cento dei propri talenti.
Il punto— come ha spiegato ieri sul Corriere Anna Maria Tarantola, membro del direttorio della Banca d’Italia — non è che le donne siano più brave e debbano per questo essere spinte in alto a costo di forzare il sistema: il punto è che «il giusto mix di competenze femminili e maschili ha un effetto rivitalizzante sulla gestione» . E questo vale in famiglia, in azienda e— perché no, pensando al futuro — in politica. Per noi è quindi un fatto positivo che i Consigli di amministrazione e i collegi sindacali delle società quotate e a controllo pubblico siano stati chiamati, in due fasi dal 2012 al 2015, ad aprirsi fino ad avere almeno un terzo dei componenti donna. È un fatto positivo, che ha un valore simbolico al di là delle trincee nei Cda, anche se in qualche modo triste. Tutti — tutte — ci saremmo augurati di poter partecipare a un’evoluzione naturale e indolore. Ma l’esperienza, non solo italiana, ha dimostrato che senza una norma vincolante il sistema non si sblocca: gli incentivi morbidi non inducono un cambiamento che mette in discussione equilibri antichi e porta scompiglio tra i presenzialisti della governance. Benvenute dunque le quote di genere, nella speranza di poter archiviare al più presto questo che nasce come un rimedio temporaneo a uno squilibrio di sistema: uno squilibrio che non garantiva l’eguaglianza di opportunità tra cittadini che uno Stato liberale promette. Ma possiamo fermarci alle quote per «chiudere» il gap di modernità che affligge l’Italia? In un suo intervento per l’ 8 marzo, Nicholas Kristof — giornalista americano, premio Pulitzer, molto sensibile alle questioni femminili — si chiedeva se le donne leader facciano o no la differenza. E subito sosteneva la maggior utilità di «una massa critica al femminile» alla base della piramide sociale e politica. Secondo Kristof, tante donne attive nelle realtà locali sono più determinanti di Hillary Clinton— o della cancelliera Angela Merkel o di Christine Lagarde neo eletta alla direzione del Fondo monetario internazionale — per produrre cambiamento. Le due cose non si escludono: se donne (meritevoli) ai vertici sono fondamentali per scuotere la piramide e fare rete dall’alto, è anche vero che dobbiamo a questo punto proporci una «agenda D» che aiuti le donne a essere cittadine attive in tutti gli spazi che sono le fondamenta della società. Soprattutto in una fase economica che vede moltissime italiane farsi carico dei compiti -di assistenza, cura, solidarietà -che lo Stato non riesce più ad assolvere. Un paio di proposte sono circolate negli ultimi mesi e possono essere subito rilanciate. La prima idea — scaturita da Bankitalia — è quella di rivedere il sistema degli assegni e delle detrazioni per carichi familiari: l’obiettivo è spostare risorse verso un credito d’imposta capace di incentivare l’occupazione delle donne e in particolare quella delle madri. La seconda idea — avanzata da www. ingenere. it e sostenuta in questi giorni da Emma Bonino— è quella di utilizzare i 4 miliardi risparmiati grazie all’innalzamento dell’età pensionabile delle dipendenti nell’amministrazione pubblica per favorire politiche di conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita (nel 2010 e nel 2011 questi soldi sono già spariti nei labirinti delle manovre finanziarie). È un cammino lungo ma assolutamente possibile. Il passaggio in Parlamento, con un accordo bipartisan, delle quote rosa non ha valore solo in sé e non è una garanzia per élite. È la dimostrazione che i cambiamenti avvengono. Il traguardo verso il quale muoversi è che uomini e donne possano aspirare tanto a un posto in Cda quanto a contratti con orari flessibili che permettano loro di tenere insieme famiglia, lavoro, se stessi.
Il Corriere della Sera 30.06.11