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"Quando a Milano c'erano i furbetti della monnezza", di Antonio Massarutto

Negli anni Novanta il capoluogo lombardo rischiò il collasso-spazzatura. Ma con uno spregiudicato artificio burocratico i rifiuti “urbani” si trasformarono in rifiuti “speciali” e furono smaltiti fuori dalla Lombardia, in impianti localizzati in varie regioni italiane. I trucchi che si possono fare con l’immondizia sono degni di Totò e Peppino e possono diventare ottimi affari. Forse anche i californiani li conoscono bene. Se fior di tecnici che stimo e rispetto non sono riusciti a venire a capo della catastrofe della munnezza napoletana, non sono certo così pazzo da pensare di risolverla dal comodo salotto di casa (dove peraltro stazionano ben cinque pattumiere separate per la raccolta differenziata). Non intendo neppure pronunciare la parola “inceneritore”, onde evitare che la mia casella mail venga bombardata di spam dai grillini di tutta Italia e il sito de lavoce.info venga sommerso dagli strepiti di indignados e anime belle.
Forse, però, prima che qualcuno pensi di indire un referendum anche per la monnezza, una ripassatina alla storia recente farebbe bene a quanti – politici, esperti (veri e fai-da-te), semplici cittadini – stanno in questi giorni assistendo all’ennesima puntata della tragicommedia partenopea.

SMALTIMENTO DI RITO AMBROSIANO

Qualcuno ricorda ancora, per esempio, che negli anni Novanta una crisi simile a quella napoletana fu vissuta da Milano. La leggenda dice che, con un soprassalto di meneghina efficienza, la “capitale morale” si rimboccò le maniche, e in poco tempo mise all’opera un sistema integrato basato sulla raccolta differenziata e il riciclo, ricorrendo – solo per lo stretto tempo necessario – alla solidarietà delle regioni amiche. Ma non andò proprio come ce la raccontano.
Il comune di Milano per gestire il rifiuto realizzò un impianto di selezione, compostaggio e produzione di cdr (combustibile derivato da rifiuti) – più o meno come quelli che sono stati realizzati a Napoli, e non hanno funzionato perché non sono stati in grado di ottenere un compost e un cdr davvero riutilizzabili. Nemmeno Milano ci riuscì, peraltro. Del compost e del cdr che uscirono dall’impianto realizzato sull’area ex-Maserati non fu mai recuperato nemmeno un grammo. Quel compost e quel cdr invenduti, ormai diventati “rifiuti speciali”, potevano però essere legalmente smaltiti in impianti autorizzati collocati ovunque, e presero la strada del Friuli, della Puglia, della Campania, dovunque ci fossero discariche autorizzate per rifiuti industriali.
Anche sul destino del 30 per cento raccolto con la differenziata non metterei la mano sul fuoco: chiunque operi nel settore di rifiuti sa che dei materiali raccolti in modo differenziato si recupera una frazione tanto più grande quanto più il materiale è conferito in modo ordinato e pulito, mentre la frazione di scarti è tanto più alta quanto più la raccolta viene improvvisata (e Milano la improvvisò in poche settimane). Anche quegli scarti, tuttavia, sono rifiuti speciali, che potranno essere smaltiti presso qualunque operatore autorizzato, e dunque non rientrano più nella contabilità della gestione del rifiuto urbano, la quale si esaurisce nel momento della cessione al soggetto che dichiara di avviarli al recupero.

RIFIUTI URBANI E SPECIALI

Il meccanismo era perfettamente legale nella forma, anche se ben lontano dallo spirito del cosiddetto “principio di prossimità e autosufficienza”, in base al quale i rifiuti urbani devono essere trattati nel territorio che li ha prodotti: i rifiuti urbani, appunto (circa 32 milioni di tonnellate, in Italia). Per quelli speciali (107 milioni di tonnellate), ossia i rifiuti prodotti dalle attività commerciali e industriali, vale l’obbligo di affidarli ad operatori autorizzati, ma non il principio di prossimità; se si tratta di materiali almeno teoricamente destinati al recupero, è del tutto lecito smaltire in Calabria o in Danimarca un rifiuto speciale prodotto da un’azienda veneta o marchigiana.
In sé e per sé, niente di male, se non fosse che Milano prima, ma ancor oggi moltissimi operatori del Centro e del Nord, un po’ per necessità, un po’ per convenienza, hanno fatto largo ricorso alla pratica di realizzare impianti di cosiddetto “riciclaggio”, che in realtà non riciclano un bel nulla, ma trasformano i rifiuti urbani in una merce teoricamente destinabile alla vendita, che poi però non vuole nessuno. Se un produttore di mozzarelle non riesce a vendere il suo prodotto prima della data di scadenza, questo diventa un rifiuto speciale da smaltire. E il cdr e il compost milanesi, come tante mozzarelle scadute, presero a girare per l’Italia come rifiuto speciale, eludendo il vincolo territoriale. Un trucco degno di Totò e Peppino, che per una volta sono stati i milanesi a insegnare ai napoletani.

SPAZZATURA CHE PUZZA UN PO’ MA RENDE BENE

Ma poi si può raffinare ulteriormente il gioco. Prendiamo il compost (da rifiuti indifferenziati): è di qualità così bassa che nessuno lo vuole. Ma supponiamo che, invece di collocarlo in discarica come dovrebbe, il suo detentore stipuli un accordo con aziende agricole compiacenti; anzi, supponiamo che se le comperi proprio (al Sud, ma anche al Nord, sono molti i terreni agricoli in via di abbandono, in vendita per un tozzo di pane). Li compera, finge di coltivarli, e dunque li concima col suo compost di bassissima qualità, e incassa pure i contributi europei. E già che c’è, perché fermarsi? In quel compost potrebbe mescolare qualche po’ di altri rifiuti, magari di notte, dopo che un tecnico ha certificato che di compost si tratta. Lo stesso si può fare con molte altre “materie seconde” recuperate nel ciclo dell’edilizia, nelle massicciate, nelle barriere antirumore, per citarne solo alcune. Forme di recupero lecite e meritevoli, si intende: finché qualche manina discola non interviene a mischiare le carte.
Mi fanno sinceramente sorridere le prese di posizione degli amministratori del Nord che oggi strepitano indignati dicendo di “essersi stufati” di venire in soccorso dei napoletani. Ai quali il giochetto (di trasformare gli urbani in speciali) non può riuscire, anche perché nel frattempo tutte le discariche d’Italia sono state riempite di rifiuti (milanesi e più in generale del Nord). Quindici anni fa, una discarica in Lombardia costava già 150 euro per tonnellata o più, e al Sud 10 o 20 volte meno. Ora la pacchia è finita, e anche al Sud la discarica è divenuta merce rara.
Il Nord non è senza peccato, insomma, e farebbe bene a non dimenticare dove i suoi rifiuti sono veramente andati a finire per almeno dieci anni, e in parte continuano tuttora. Vero è che il tempo guadagnato con il giochino servì a Milano per pianificare e realizzare con calma gli impianti di cui oggi può ben andare fiera, e che – oggi sì – possono permetterle di affermare a testa alta di aver risolto i problemi chiudendo la filiera: riciclando, recuperando, bruciando per produrre energia, se non azzerando riducendo in modo sostanziale la dipendenza dalle discariche.
Per realizzare quegli impianti e mandare a regime le soluzioni che caratterizzano un moderno sistema integrato di gestione ci vollero molti anni. Non bastano sei mesi, e solo un ciarlatano poteva pensare che a Napoli ci si potesse arrivare per la scorciatoia del commissariamento e degli impianti presidiati dall’esercito, senza pensare a dove metterli nel frattempo. Già detto, già scritto troppe volte su queste colonne, già verificato sulla pelle dei cittadini. Cos’altro resta da aggiungere?
Ma a Napoli, forse, si prenderà un’altra strada. Pare che ad istruire la nuova giunta su cosa fare sia venuto un guru da San Francisco: quella città che sta facendo credere al mondo intero che i suoi rifiuti vengono riciclati al 75 per cento. Ora, sarebbe interessante che ci si raccontasse cosa accade veramente a quel 75 per cento “riciclato”. Esso viene raccolto con una differenziata multimateriale (ossia: tutti gli imballaggi e i materiali riciclabili vengono messi in un unico contenitore) che avvia il raccolto a un impianto di selezione dove il tutto viene separato, un po’ meccanicamente, un po’ a mano. Quel che ne risulta sono materiali teoricamente riciclabili, per cui anche in America escono dalla contabilità del rifiuto. Ma mi ha detto un uccellino che buona parte di quelle “materie seconde” un mercato lo trova sì, ma in estremo Oriente. Totò e Peppino, dalla tomba, sorridono …

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