Durata. Decisione. Differenza. È su questi argomenti che poggia la riflessione per fare del Pd un partito capace di rappresentare una concreta e affidabile alternativa. Le elezioni amministrative e i referendum hanno acceso il dibattito sulle forme nuove della politica e sul modo migliore per riavvicinare i partiti ai cittadini. E viceversa. È giunto il tempo di spiegare perché abbiamo scritto la parola partito nelle nostre bandiere. Perché solo noi in Italia ci chiamiamo partito? E perché ci siamo convinti a questa scelta dopo averla negata per tanti anni? Provo a rispondere con tre parole. Le tre D per il partito democratico: Durata, Decisione e Differenza.
DURATA. Ci è stato riconosciuto di aver aiutato il risveglio italiano. La mitezza di Bersani sotto il palco di Pisapia non è segno di debolezza, ma corrisponde al massimo risultato elettorale del Pd in quella città. Paradossalmente la vocazione maggioritaria funziona meglio quando non viene predicata.
Fin qui tutto bene, ma come prosegue l’aiuto? Tutti i movimenti di quest’ultimo anno si sono posti il problema della durata, di come dare continuità alle loro istanze e di come renderle permanenti nell’agenda politica del Paese. Di ciò, ad esempio, ragiona proprio in questi giorni il movimento delle donne. Spesso la politica attribuisce ai movimenti la colpa di non durare. Ma proprio su questa carenza si dovrebbe far sentire invece l’aiuto della politica. Spetta al Pd assicurare la durata al risveglio italiano. Un partito diventa grande quando è capace di dare durata a sentimenti profondi della nazione. Con le proposte di governo,
con alleanze sociali e soprattutto influendo sul senso comune dei cittadini. Creare le basi di un nuovo ciclo politico è il nostro compito.
DECISIONE. Un nuovo ciclo, però, si afferma sempre in polemica col precedente. Nell’ultimo ventennio la svalutazione dei partiti prometteva un futuro radioso per la politica: più decisione e potere ai cittadini. Promesse clamorosamente fallite. La verticalizzazione delle istituzioni ha fatto naufragio e anche noi eravamo sopra la nave. I leader solitari rimangono facilmente prigionieri del consenso e per rincorrere le tendenze sempre più radicali della società finiscono per dare ragione a tutti e non decidere nulla. L’unica decisione è stata l’euro, poi solo propaganda e gestione corrente. Bisogna frenare la personalizzazione distruttiva e riscoprire le virtù della moderazione, che è il contrario del moderatismo, come insegna ancora Milano. Si dovrà ri-mediare la democrazia. Ri-mediare per correggere le cose sbagliate e per trovare la misura della politica. La decisione ha bisogno di partiti autorevoli che sanno gestire sia il conflitto sia la mediazione. Entrambi i momenti sono essenziali per determinare la volontà nazionale di cui parla l’articolo 49.
DIFFERENZA. La vittoria è frutto della politica del Pd, dell’impegno dei nostri militanti e soprattutto dell’intelligenza dell’elettorato di centrosinistra, forse il migliore in Europa. Elettori che scelgono con saggezza, capiscono quando si giocano partite decisive, sanno ormai organizzarsi da soli, ricorrendo anche all’ironia. Sorride solo chi non si è fatto conquistare la mente dall’avversario.
Siamo sinceri, questo elettorato è spesso più avanti del ceto politico che dovrebbe rappresentarlo e se possibile anche guidarlo. In questa “differenza” c’è una spina e una rosa. C’è il pungolo a cambiare noi stessi e c’è un fiore che può sbocciare se costruiamo un partito democratico all’altezza del suo popolo. Sarebbe imbattibile un partito democratico capace di coltivare la forza dei suoi elettori e dei suoi militanti.
Che cosa ce lo impedisce? Ci sono personalismi, cordate e notabilati che occludono l’alimentazione dalla linfa popolare, mettono in sofferenza le coerenze ideali, diseducano i giovani e mettono perfino in pericolo le alleanze. Vi porto qui l’esempio del Lazio. Pur con un risultato elettorale positivo in quasi tutti i comuni il Pd si è presentato con
due o più liste promosse da suoi esponenti. Questo non è pluralismo, la Dc aveva correnti forti ma non avrebbe mai consentito liste plurime.
Fino a quando assisteremo inermi a questi fenomeni negativi? Non è un destino immodificabile. Ci sono tante risorse positive da incoraggiare nelle nostre organizzazioni. Non facciamoci dare i compiti dal qualunquismo, è dovere nostro ridimensionare il peso del ceto politico e anche i suoi privilegi. Occorrono misure concrete, ne ha parlato Bersani, per aiutare i dirigenti e gli eletti a rendere conto del proprio operato, per premiare i risultati migliori e impedire le degenerazioni.
Il Pd combatte su due fronti, contro l’antipolitica e il populismo. Batteremo questi avversari solo quando saremo riusciti a strappare i rispettivi nuclei di verità, parlando al popolo meglio del populismo e restituendo il prestigio alla classe politica.
Tutto ciò sembrava annunciato nell’invenzione delle primarie, perciò sono diventate il mito fondativo del Pd. Le primarie nel contempo sono state anche una regola di selezione. Oggi, i guai vengono proprio dalla sovrapposizione di queste due funzioni. Nel seminario preparatorio di questa direzione gli studiosi americani ci hanno consigliato di utilizzare le primarie non come una religione, ma come uno strumento, correggendone alcune procedure difettose. È una soluzione di buon senso, che però lascia un vuoto. Un partito ha pur sempre bisogno di un mito fondativo, se non è più nelle primarie, bisognerà cercarlo nel significato più profondo che quella regola ha evocato in milioni di elettori e cioè che siamo decisi nel dare all’Italia un partito mai visto prima, un moderno partito popolare. Dobbiamo progettarlo nell’organizzazione, nella cultura e perfino nella simbologia. Moderno perché vuole andare oltre le vecchie forme. Popolare perché vuole dare il potere a chi non ce l’ha.
Il partito della Durata, della Decisione e della Differenza.
L’Unità 27.06.11