Forse la crisi di un Paese si misura più in certi momenti buoni.Proprio quando possiamo essere tutti soddisfatti, come italiani, dell’ascesa di Mario Draghi a presidente della Bce, si riesce a trasformare la nomina del suo successore in una specie di farsa; subito si intacca il prestigio guadagnato. Unica attenuante, anche la Francia non si è comportata bene in questa vicenda. Siamo ancora in tempo per risolvere bene la scelta del nuovo governatore della Banca d’Italia. Ma quello che è accaduto nelle ultime tre settimane mostra quanto in Italia difetti il funzionamento delle istituzioni. Siamo un Paese ancora in grado di esprimere personaggi di alta qualità, capaci di essere apprezzati nel mondo. Però poi è facile che anche i migliori rimangano almeno contaminati da giochi di potere conditi di personalismi. Lotte di potere e contrasti di ambizioni personali ovviamente esistono ovunque, ma in un Paese che funziona vengono disciplinati dal rispetto delle leggi e dalla qualità complessiva della classe dirigente. Draghi non è stato scelto in un mercato delle vacche tra i 17 governi che condividono l’euro, ma perché era di gran lunga il migliore dei candidati in gara. All’inizio della contesa sembravano prevalere grette questioni di nazionalità («questa volta deve toccare a un tedesco», «solo un nordico può dare un segnale di rigore»).
Poi la logica dei Trattati europei ha prevalso e questa volta la pressione dei mercati finanziari, pronti ad infierire su ogni scelta debole, ha giocato nel senso giusto. I guai sono venuti dopo, quando le questioni di nazionalità, superate della Germania, sono state rimesse sul tavolo dalla Francia. A Parigi, si sa, l’indipendenza della Bce dai governi, sancita dai Trattati, non è mai piaciuta molto, né alla destra né alla sinistra. Ma invece di confrontarsi con questo problema, e cercare di risolverlo, in Italia si è rifiutato di vederlo, e ha affrontato la successione al vertice della Banca d’Italia in termini (adattando una simile espressione di Oltralpe) «italo-italiani». Più del prestigio internazionale del Paese, più della funzionalità della Banca d’Italia, ci si è occupati d’altro. Si è percepito che alcuni banchieri desideravano cambiasse proprio ciò che la Banca d’Italia sotto Draghi ha fatto meglio, cioè vigilare severamente sulla solidità della finanza. E’ corsa voce che la scelta del nuovo governatore entrasse in patteggiamenti politici all’interno della maggioranza. Quasi mai si sono poste le domande giuste: chi può fare meglio quel lavoro? Chi fra i candidati ha già esperienza concreta nel campo difficile delle banche centrali, appunto autonomo dai governi? Chi possiede un più affermato prestigio internazionale? Invece si classificavano i nomi in «interni» ed «esterni», cosa che aveva senso quando la Banca d’Italia era un’istituzione solo italiana e non, come dal 1999, una parte dell’Eurosistema.
Si dimenticavano gli insegnamenti del caso Fazio: il governatore non deve essere né troppo vicino alla politica (nemmeno con alleanze trasversali), né troppo tenero verso i banchieri. All’apparenza, la giornata di ieri ha portato un po’ più di chiarezza. Il presidente del Consiglio ha fatto tre nomi, rimettendo in gara Lorenzo Bini Smaghi dopo averlo escluso senza spiegazioni due settimane fa. Sui tre nomi adesso si può fare un confronto aperto. Ma non è affatto sicuro che il mondo politico italiano abbia capito come la questione va affrontata, almeno a giudicare dalle chiacchiere romane di ieri sera. Cosicché, nel Paese che secondo gli stranieri si preoccupa troppo della «bella figura», finirebbero per fare una brutta figura tutti.
da www.lastampa.it