«Quello della giustizia e della sua appendice carceraria è il tema principe della crisi del Paese»: così, parola più parola meno, sembra che abbia detto il ministro Angelino Alfano a Marco Pannella ricoverato per le conseguenze di un durissimo sciopero della fame e della sete sui problemi del carcere. Dispiace non poter essere d´accordo col ministro. Le sue parole sono un bell´esempio dell´arte del politico di mestiere di cambiare le carte in tavola. Il «tema principe» del Paese, cioè il problema dei processi di Berlusconi, non ha niente a che spartire con la questione carceraria. No, il carcere non è un´appendice del problema della giustizia, è “il” problema. Lo è in assoluto: noi non abbiamo per fortuna la pena di morte, ma abbiamo carcerazioni di una lunghezza tale da esserne l´equivalente. Eppure si dice che la gente chiede pene sempre più dure: sarà vero? Di fatto c´è solo che nel Paese non c´è un´emergenza criminalità. Tutte le statistiche dicono che in Italia il numero dei reati è fermo da anni. Eppure cresce di continuo l´affollamento delle prigioni.
I numeri sono impressionanti: la capienza delle carceri è di circa 45.000 posti, i numeri reali sfiorano i 70.000. Capienza: è il termine in uso per le discariche. Il carcere è la discarica della società, la sua pattumiera, il luogo dove i rifiuti umani vengono chiusi, dimenticati, distrutti moralmente o fisicamente. Quei settantamila per oltre il 60% appartengono alle “fasce deboli” della società: immigrati, tossicodipendenti, gente senza dimora, sofferenti psichici. Chi sono i veri responsabili della situazione? Il resoconto del “Gruppo Abele” di fine 2010 li indica senza incertezze: sono le leggi. Questo nostro Paese non ha ancora una legge che punisca la tortura: e da ciò l´imbarazzo su come punire le alte e basse cariche responsabili del massacro del G8 di Genova. Ma ha fior di leggi per mettere la gente in galera: per esempio la Bossi-Fini sull´immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe e la ex-Cirielli sulle recidive. E non parliamo dei Cie, dove Maroni vuol tenere i profughi e i clandestini per diciotto mesi. In galera si vive e soprattutto si muore: centosettanta i morti del 2010 di cui sessantacinque per suicidio. E il 2011 si avvia a battere il record. Ci sono quelli che vengono, per così dire, lasciati morire: la cronaca della mia città ha registrato il caso di Mario Santini, sessant´anni, un uomo definito “a bassa pericolosità”, morto in cella nel pomeriggio del 18 maggio scorso. Era malato, aveva bisogno di cure, è stato trovato morto. E ci sono quelli che in carcere entrano vivi e ne escono morti perché qualcuno li ammazza – qualcuno che dovrebbe essere responsabile della loro esistenza e dei loro diritti: si veda alla voce “Stefano Cucchi”, si leggano le altre storie come la sua che ci interpellano dai capitoli del libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone, Quando hanno aperto la cella. Sono tutte storie dello stesso genere: appartengono a una umanità minore, residuale e per questo ritenuta non degna di essere difesa.
Al contrario è la società che bisogna difendere da loro: o almeno così pensa chi relega queste notizie nella categoria degli incidenti inevitabili. Bisogna che qualcuno muoia perché sulle condizioni delle carceri si accenda per un momento la luce della cronaca. Così come bisogna che le strade di Napoli trabocchino di immondizia perché qualcuno si preoccupi. Ebbene, è evidente che così non si può continuare: come per le discariche dei rifiuti anche per gli esseri umani rifiutati e lasciati marcire in galera c´è chiaramente qualcosa di sbagliato nelle leggi. Occorre promuovere una presa di coscienza nella classe dirigente del Paese che imponga una revisione legislativa delle norme criminogene accumulatesi negli anni.
Non bastano le pur meritorie iniziative di gruppi isolati e l´impegno di associazioni come quella che ha promosso il pellegrinaggio a piedi di un gruppo di carcerati raccontato in un bell´articolo di Avvenire di qualche giorno fa. Il problema del carcere è iscritto nella contraddizione tra la funzione di strumento “reintegrativo” dell´individuo nella società che la nostra Costituzione gli ha affidato e la realtà che ne ha fatto una macchina criminogena. Il carcere deve essere concepito come un luogo di passaggio e non come uno stato senza alternative. Una pena certa e un diritto penale minimo, secondo la proposta di Luigi Ferrajoli, debbono sostituire il calvario imposto da norme dettate dalla paura del “nemico della società”.
Così l´Italia non farebbe che tornare alle sue tradizioni storiche remote, quando intorno alle carceri si mobilitavano le migliori energie di una popolazione ben consapevole del fatto che lì si trovavano i più poveri e i meno tutelati della società. Quando, alla metà del Seicento, il vescovo modenese Gian Battista Scanaroli pubblicò il suo monumentale trattato su come doveva funzionare l´istituzione dei visitatori delle prigioni lo definì un libro nato “tra le catene dei carcerati”, “in mezzo alle tenebre dei poveri”. Nell´Italia dei consumi affluenti su quelle tenebre diventate impenetrabili deve accendersi finalmente la luce della ragione.
La Repubblica 24.06.11