Occorrerebbe fare chiarezza sulla politica economica, dove si sovrappongono diverse voci, molti giudizi e qualche minaccia. Cominciamo da Berlusconi, che ha tracciato un programma insensato, perché mentre continua ad esprimere un giudizio positivo sulle politiche del governo, contemporaneamente riconosce la necessità di una manovra per lo sviluppo che evidentemente non c’è. Poiché la scarsa crescita è con noi da tempo, occorre dedurne che Berlusconi crede oggi che l’«aver messo in ordine i conti» non aveva alcun riferimento con lo sviluppo: avrebbe ragione, naturalmente, come ogni volta che si pratica la strategia dei due tempi (prima i sacrifici, poi lo sviluppo) ma allora, fin dall’inizio della legislatura, avrebbe dovuto mettere in campo politiche di sviluppo e ordine nei conti. Era un programma necessario, anche per evitare che l’austerità di Tremonti si riflettesse negativamente sulla ripresa economica, ed era politicamente fattibile data l’enorme maggioranza della destra in Parlamento. L’attuale perdita di credibilità del governo sta proprio nell’angustia di quel disegno. Adesso, promettere qualcosa sullo sviluppo, per esempio con qualche cervellotica operazione sulle aliquote dell’Irpef, compensata forse da un aumento dell’Iva o da una riduzione delle pensioni, serve soltanto ad adescare consenso, non certo a rimettere in moto l’economia e, in ogni caso non basterebbe a ridurre il deficit pubblico. Tremonti, a sua volta, ha volato apparentemente basso, cercando di apparire come l’uomo della lesina. Il suo comportamento, però, è sconcertante. Al Consiglio Europeo, il ministro italiano non ha ricordato la sua stessa proposta per gli eurobond, ha dimenticato l’idea di una tassa europea sulle transazioni finanziarie, non ha rilevato l’effetto deprimente sull’economia europea di bilanci in pareggio in due-tre anni, né ha fatto rilevare come, per alcuni Paesi, ciò scuote alle fondamenta il patto sociale nazionale, non ha preteso una qualche difesa dalla speculazione internazionale dei debiti pubblici dei Paesi membri, non ha speso parole sulle agenzie di rating. L’Italia, certo, è il Paese europeo con il debito pubblico più alto, ma ha un peso molto rilevante perché è il terzo Paese manifatturiero d’Europa, è sostegno indispensabile per l’Euro, provvede risparmio a tutta l’Europa, ha, nelle sue banche, meno problemi della Germania e della Francia. Che Tremonti abbia accettato le politiche di rientro dell’Unione, senza alcuna apertura su politiche europee per la crescita, può voler dire solo due cose: o egli ritiene cinicamente che le indicazioni europee e le minacce conseguenti della Commissione non valgano un soldo bucato, e nessun Paese riuscirà effettivamente a rientrare dai deficit e dal debito, oppure ha usato la severità della Commissione per farsi legare le mani, così da scalzare Berlusconi e qualificarsi come il Quintino Sella di un governo di salute pubblica. In una cosa è riuscito Tremonti: a porre il debito italiano su un piano vicino a quello greco, con la conseguenza che, di nuovo, è la paura che comanda l’elaborazione delle politiche economiche nazionali.
Nella confusione, torna anche l’idea, a destra e a sinistra, che il risanamento finanziario sia già una politica di sviluppo. Che non sia così è chiaro a chiunque non dorma ad occhi aperti; ma la paura è come il sonno: genera mostri. Non c’è soluzione, se non nella formulazione del programma di governo del centro sinistra: è questo che deve prendere insieme i due tempi, lavorare per l’occupazione e per un ragionevole risanamento, riprendere il disegno europeo e fin d’ora prospettarlo ai partner dell’area Euro. Un “vaste programme”? Dopo Berlusconi&Tremonti, è solo questo che può restituire credibilità alla nostra finanza pubblica, ed è anche la premessa per mandare a casa la destra.
L’Unità 24.06.11