Allo stesso modo in cui ci si sente offesi dalla volgarità, supponenza, superficialità del nostri connazionali, e soprattutto di quelli che hanno il privilegio di potersi esprimere pubblicamente, così ci si sente rinfrancati da quelli tra loro che dimostrano uno “stile” diverso, il bisogno di una profondità, l’inquietudine di una ricerca. Ricerca di che, in definitiva, se non del senso da dare alla propria esistenza in mezzo agli altri? È a partire da questa primaria differenza che mi capita di questi tempi di giudicare i giovani che incrocio, con cui vengo a contatto girando l’Italia.
Una premessa. Io mi ritengo molto fortunato, per aver conosciuto e per avere ancora la possibilità di conoscere e frequentare persone di valore, minoranze attive o presenze pulite ancorché passive, e non faccio molta distinzione tra le età, ma certamente il tempo logora, e l’Italia corrompe: è difficile trovare adulti o anche vecchi preoccupati di qualcosa di più che della loro sopravvivenza, del loro star bene e, tra quelli che hanno una qualche figura pubblica, del loro piccolo potere, della loro povera immagine.
Torniamo ai giovani. Come sempre, la maggioranza tra loro finisce per farsi conformista, e per farsi lentamente conquistare dai modelli vincenti. È difficile tener testa da soli agli tsunami delle mode (delle manipolazioni commerciali che ne sono alla base) e ai ricatti del “così va il mondo”, ma è pur vero che il grande privilegio della gioventù è sempre stato quello di inventare il nuovo in barba alle idee correnti. Faccio allora un esempio. Prima delle elezioni ho visto sui muri delle piccole città meridionali e settentrionali l’imbarazzante esposizione di facce sorridenti e brutte, di puffi che chiedevano il voto, e per buona parte si trattava di giovani. Nessuno sembrava avere qualcosa di suo da dire, un programma anche minimo da proporre, anche se tutti dichiaravano di essere portatori di cambiamento, dicevano che bisognava cambiare senza mai dire cosa, perché, come.
Chiedevi a qualche amico del posto e ti diceva chi erano, e scoprivi che, a parte i cognomi più noti (rampolli di politici, commercialisti e professionisti bene insediati, e dunque “eredi” secondo le regole del “familismo amorale”), gli altri erano sconosciuti ai quali qualcuno (i genitori, una nonna affettuosa, un parente interessato) aveva pagato la campagna inventando magari una piccola lista – in certi comuni del Sud se ne sono presentate a dozzine, e quelle sopravvissute si sono accorpate, cioè “vendute”, a quelle maggiori. In generale, non era vero che non ci fosse ricambio, anche se sul fronte di una tradizione che è tutto fuorché entusiasmante: in queste elezioni i giovani hanno avuto un peso anche dentro il sistema di potere consolidato. Ma per fortuna lo hanno avuto più grande su quello contrario, della novità.
In un bell’articolo su la Repubblica Ilvo Diamanti, attento e puntuale come sempre, ha messo in rilievo meglio di altri il ruolo avuto dai giovani nel cambiamento in corso. Dai giovani e dai loro mezzi di comunicazione, che hanno decretato la decadenza del potere televisivo (di “destra” e di “sinistra”: lo sguaiato pappone delle grida amministrato cinicamente dai “grandi conduttori” e dal “grande comunicatore”). Assieme al voto delle donne nauseate dalle schifezze del berlusconismo e dai modelli femminili vincenti, assieme al voto dei cattolici, sul quale bisognerebbe riflettere meglio, e più ancora di quelli, è stato il voto dei giovani a decidere di queste elezioni e del referendum. Di giovani che hanno giustamente le scatole piene di noi adulti, dei “grandi” adulti come dei piccoli adulti, dei big come dei loro lacchè e dei loro complici portatori di ideali simili e diffusori di simili modelli. Di giovani che chiedono fatti e sostanza, e rispetto per sé e per i cittadini comuni, con le carte in regola e non…
Forse verranno ancora delusi (o ci deluderanno) e forse molti di loro finiranno ancora una volta nel calderone delle maggioranze frastornabili ed egoiste. Forse dovranno scontrarsi con quegli altri giovani che vedono nella politica (nell’occupazione del “pubblico”) soltanto un posto di lavoro o, peggio, un posto di comando. E noi adulti dovremo di nuovo saper distinguere, e metterci, paritariamente, a servizio dei migliori tra loro e dei modi che escogiteranno di inventare un nuovo all’altezza di questi tempi balordi. Per il momento, è già bello non dover dire loro “fuitevenne”, andatevene all’estero, scappate via da questo paese di merda, come diceva tanti anni fa Eduardo De Filippo ai ragazzi napoletani.
L’Unità 19.06.11