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“Ciampi: triste per l’uso del dolore. Guai a ridurre il Presidente a passacarte”, di Sebastiano Messina

Tristezza e amarezza. Usa queste due parole, Carlo Azeglio Ciampi, per spiegare quello che prova nel momento in cui il conflitto tra Quirinale e Palazzo Chigi diventa incandescende. Lui che riuscì a “coabitare” per cinque anni con il presidente del Consiglio Berlusconi, forse è l’uomo che si rende conto meglio di chiunque altro di quanto sia pesante per un Capo dello Stato prendere una decisione in solitudine, contro l’opinione del governo in carica.

Cosa ha provato vedendo in tv il presidente del Consiglio che apriva così duramente un conflitto con il Capo dello Stato?
“Ho provato un senso di grande tristezza. E di amarezza. Perché mi rattrista molto vedere che un caso umano così doloroso diventi occasione per cercare di attaccare il Capo dello Stato. E’ davvero inopportuno, e mi amareggia innanzitutto come cittadino, che si prenda spunto da una vicenda drammatica per cercare di affievolire i poteri del Presidente. Sono stato al Colle per sette anni e conosco bene la delicatezza dei rapporti tra il Quirinale e Palazzo Chigi. Ma non si cerchi di indebolire il Presidente. Lui è una garanzia per il Paese. Questo è la prima ragione della mia tristezza. Ce n’è anche un’altra, purtroppo”.

Quale, presidente?
“Il fatto che si siano create delle tensioni in un rapporto storicamente delicato come quello tra lo Stato e Chiesa. Vede, io sono cattolico di religione, ma profondamente laico come cittadino. C’è la Chiesa e c’è lo Stato. La Costituzione definisce chiaramente i rapporti reciproci, e duole vedere che alcune dichiarazioni rischiano di creare problemi in questo delicatissimo rapporto. Ed è un fatto grave, perché proprio quest’anno ricorrono gli ottant’anni dai Patti Lateranensi: dovremmo ricordarci tutti che Stato e Chiesa devono collaborare sempre con reciproco rispetto”.

Nei suoi sette anni al Quirinale, qualcuno le ha mai detto che lei non aveva diritto di sindacare il contenuto dei decreti legge?
“Mai. Ho avuto, certo, alcuni momenti non facili con i presidenti del Consiglio con cui mi sono trovato a collaborare. Ma la Costituzione dice chiaramente che il Capo dello Stato emana i decreti legge, cioè li firma. Ebbene, questa firma non è affatto un atto dovuto. Il presidente della Repubblica deve essere convinto della necessità del provvedimento. Non può essere ridotto a uno spolverino, a un passacarte del governo. La sua firma deve essere un atto convinto, meditato. Non è affatto un visto. Rientra pienamente nei poteri che gli assegna la Costituzione”.
A proposito di firme. Lei aprì un conflitto tra poteri dello Stato, davanti alla Corte Costituzionale, per chiarire chi fosse il vero titolare del potere di grazia. Il Guardasigilli, all’epoca il leghista Castelli, sosteneneva che senza la sua controfirma il Presidente non poteva graziare nessuno.
“Sì, io mi trovai di fronte a una tesi secondo la quale il presidente poteva esercitare il potere di grazia solo su proposta del Guardasigilli. Anche la prassi di tanti anni, devo dire, andava in questa direzione. Ma io presentai ricorso alla Corte Costituzionale perché si chiarisse che quello era un potere del Presidente, un atto di sua esclusiva responsabilità. Lo feci anche se alcuni dei miei consiglieri mi avevano avvertito che era un rischio, perché la Corte avrebbe potuto anche darmi torto. Invece mi diede ragione. E questo punto è stato finalmente chiarito”.

Già, i giudici costituzionali stabilirono che quella del Guardasigilli era una controfirma dovuta. Non potrebbe oggi Berlusconi usare lo stesso ragionamento per sostenere che il potere di emettere un decreto legge spetta solo al governo, e che la firma del Presidente è un atto dovuto?
“Non credo proprio che i due casi siano sullo stesso piano. Quello di emanare un decreto legge non è un potere formale, un visto: è un potere sostanziale. Uno dei poteri che fanno del Presidente della Repubblica il garante della Costituzione”.

La Repubblica 8 febbraio 2009

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