E ora che facciamo con l’energia elettrica? Il referendum dice che agli italiani non bastava l’incerta sospensione dei piani nucleari del governo che li aveva sbandierati fino al disastro di Fukushima. Il corpo elettorale ne ha preteso l’archiviazione. Ma il referendum lascia aperta una sfida. Una sfida tremenda che non è quella che sembra. Partiamo dai fatti. Il referendum cancella soltanto progetti allo stato nascente, nemmeno troppo costosi: l’Enel ha speso finora non più di 2-300 milioni. Senza nucleare, l’Italia resta quella che è. E non rischia alcun blackout. La capacità produttiva installata lungo la penisola, oltre 90 mila MW, eccede largamente la capacità impegnata ai picchi della domanda, comunque inferiore ai 60 mila MW. La riserva appare sufficiente nel caso di fermata di parte anche grande delle centrali in attività. Importiamo un po’ di energia dalla Francia, è vero. Ma lo facciamo perché l’Edf non può stoccare le eccedenze produttive e le ricolloca a basso prezzo. Nelle intenzioni del governo, dunque, il nucleare avrebbe dovuto dare energia pulita e a prezzo prevedibile, attenuando la dipendenza dal gas libico, russo e algerino trasportato via tubo. In realtà, la dipendenza da questi tre fornitori può essere attenuata anche in altri modi: per esempio, costruendo più rigassificatori per usare gas naturale liquefatto, oggi abbondante e di varia provenienza. D’altra parte, il costo di produzione non ha mai rappresentato la vera convenienza del nucleare: si sa che, con il prezzo del barile basso, l’atomo sarebbe oneroso. La vera convenienza è ecologica: il nucleare non dà emissioni. E allora, senza atomo che si fa? La Borsa immagina che il governo darà ulteriori incentivi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. E così le azioni «verdi» — da Enel Greenpower in giù — hanno registrato sensibili rialzi. Il ministro dello Sviluppo economico sembra avallare tali previsioni, ancorché le sue parole appaiano poco legate alla realtà. Dopo lo tsunami giapponese, Paolo Romani dichiarò che il progetto nucleare poteva essere sostituito con 15 mila megawatt di pompaggi idroelettrici: un’evidente assurdità. I pompaggi funzionano mandando acqua da un bacino in basso a un altro bacino in alto, usando energia nelle fasce orarie di minor costo, e poi facendo ricadere l’acqua con una condotta forzata sulla turbina per produrre energia elettrica da vendere nelle ore di punta a prezzo maggiore. Il consumo di energia è superiore alla produzione. D’altra parte, un investimento in pompaggi su quella scala è fuori dal mondo. Adesso, il ministro annuncia biomasse e geotermico al posto del nucleare che non c’è mai stato. Parole in libertà per fuggire dalle vere questioni sul tappeto. Che sono due, e riguardano anche l’opposizione: gli incentivi irragionevolmente alti alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, fotovoltaico in particolare, e quelli irragionevolmente bassi al risparmio energetico nell’edilizia, nella produzione e nei trasporti. I termini della questione sono spiegati nella relazione che il presidente dell’Autorità per l’Energia, Guido Bortoni, ha fatto alla commissione Ambiente di Montecitorio il 19 maggio 2011. Per raggiungere gli obiettivi del protocollo di Kyoto sulle emissioni di anidride carbonica nel 2020, l’Italia deve contenere in 133 Mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio) i consumi finali di energia primaria e aumentare il consumo finale di energia attribuibile alle fonti rinnovabili fino a 22,6 Mtep. Al primo traguardo si arriva migliorando l’efficienza energetica delle costruzioni e dei sistemi produttivi, al secondo producendo energia elettrica e calore. Ora gli incentivi stanziati per ogni tep (tonnellata di petrolio equivalente, unità di misura universale dell’energia) sono 100 euro per il risparmio energetico, 350 per la produzione di calore, da 930 euro (certificati verdi) a 3500 euro (fotovoltaico) per la produzione di elettricità. In apparenza, il risparmio energetico è la soluzione meno onerosa. In realtà, non è proprio così. In Italia, l’aumento di 1 tep nei consumi finali da fonti rinnovabili equivale alla riduzione di 6 tep nei consumi totali di energia attraverso il risparmio. La giusta equivalenza, dunque, colloca al primo posto sul piano economico la produzione di calore (350 euro per 1 tep), al secondo il risparmio (600 euro) e, assai distanziata, la produzione di energia elettrica per quanto gli incentivi possano essere gradualmente ridotti nel IV conto energia. Il piano di azione nazionale non prevede niente dal nucleare, che pure Silvio Berlusconi, l’ «uomo del fare» , aveva promesso già nella campagna elettorale del 2008. Ora nessuno sa bene quanto possa essere in termini quantitativi il contributo del risparmio energetico e della produzione di calore. Certo è che la spesa per incentivi al riguardo stimata dall’Autorità per il periodo 2010-2020 non supera i 7 miliardi per il primo e i 30 miliardi per la seconda, mentre per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili se ne andranno 100 miliardi. Ai quali, secondo nostre stime basate su dati dell’Autorità, vanno aggiunti altri 70 miliardi per il fotovoltaico, il cui periodo di incentivazione si dovrebbe esaurire verso il 2035. Questa clamorosa incentivazione triplica o quasi il contributo quantitativo che il fotovoltaico avrebbe dovuto apportare all’obiettivo di Kyoto, secondo il piano del governo che già privilegiava gli interventi più cari. Morale: la difesa dell’ambiente è una priorità di tutti, ma bisogna evitare che diventi l’affare di qualcuno. Ebbene, invece di perdere tempo sul nucleare che non c’è, un governo serio dovrebbe stanziare molti più soldi per il risparmio energetico e per la produzione efficiente di calore e meno per quella di energia elettrica. E dovrebbe lasciare all’Autorità il compito di modulare l’ammontare degli incentivi in relazione ai risultati nei diversi settori, secondo regole stabili nel tempo e logiche di mercato. Ma il governo preferisce avocare a sé la fissazione sempre mutevole di regole e denari e tende a fare dell’Autorità un soggetto a sovranità limitata con il compito di fare lo sceriffo della sua politica delle mance.
Il Corriere della Sera 16.06.11