attualità, politica italiana

"Il Carroccio che abbaia ma non morde", di Michele Brambilla

Tutto il mondo antiberlusconiano attende le prossime decisioni di Bossi come si potrebbe attendere la venuta di un messia. Si aspetta con ansia che la Lega «stacchi la spina» al governo, e faccia finalmente ciò che non sono riusciti a fare la sinistra, le toghe rosse e la stampa comunista (ossia tutte le toghe e tutta la stampa, secondo il parere di Berlusconi). Che sia domenica prossima a Pontida, oppure martedì in Parlamento, oppure ancora in qualche riunione ad Arcore o a Gemonio, non si sa. Ma che un’ora segnata dal destino stia per battere nei cieli della Padania, è dato per scontato.

La Lega divorzierà dal Cavaliere perché non ha nessuna intenzione di affondare con lui: questo è ciò che si pensa. E quella frase pronunciata l’altro ieri da Calderoli – «siamo stanchi di prendere sberle» – alimenta le speranze. Le richieste di cambio di passo di Maroni, ancor di più.

Basterebbe però sfogliare le raccolte dei giornali per rendersi conto che certe uscite come quelle di Calderoli e Maroni hanno più o meno la stessa frequenza delle previsioni del tempo. Da mesi, non c’è praticamente giorno in cui non si registri qualche affondo contro il Pdl. I leghisti hanno minacciato di lasciare il governo per l’intervento in Libia; hanno annunciato «mani libere» alle elezioni amministrative; ne hanno dette di tutti i colori sulla campagna elettorale di Berlusconi a Milano. E così via.

Alle parole, però, non sono mai seguiti i fatti. Su tutte le questioni che stanno davvero a cuore al Cavaliere, i leghisti non hanno mai fatto mancare il loro appoggio. Hanno votato per salvare Caliendo e Cosentino; hanno votato il legittimo impedimento e si sono detti pronti a fare altrettanto sul processo breve; hanno votato perfino per trasformare Roma ladrona in Roma capitale.

La Lega ha confermato finora il vecchio proverbio secondo il quale can che abbaia non morde. E dunque c’è il fondato sospetto che anche questa volta tante attese potrebbero andare deluse. La Lega è certamente preoccupata per l’aria che tira, e ha capito che l’alleanza con Berlusconi non ha prospettive. Ma davvero è intenzionata a divorziare dal Cavaliere?

Almeno tre ragioni le suggeriscono di non farlo. La prima è di ordine pratico. La Lega è al governo con il Pdl in tre regioni – Piemonte, Lombardia e Veneto – che da sole valgono più di mezza Italia. Che ne sarebbe di quelle giunte se si rompesse con Berlusconi?

La seconda ragione è che mandare a casa il Cavaliere per partecipare a un eventuale governo tecnico vorrebbe dire mettere la faccia su una manovra finanziaria da quaranta miliardi di euro. Con quali speranze potrebbe poi ripresentarsi agli elettori?

Infine c’è un terzo motivo. Non si sa quanto sia reale e quanto invece una leggenda metropolitana. Sta di fatto che da anni nel mondo politico si giura sull’esistenza di un accordo che Berlusconi e Bossi avrebbero sottoscritto nel 2001, quando si rimisero insieme dopo il divorzio del 1994. Scottato dal primo tradimento, il Cavaliere si sarebbe cautelato facendo mettere nero su bianco i termini dell’accordo. E sarebbero termini che Bossi avrebbe tutto l’interesse a non violare. Non sappiamo se sia vero oppure no. Sta di fatto che da quel 2001 la Lega ha spesso strillato e minacciato: ma poi è sempre rientrata nei ranghi.

Ecco perché anche domenica prossima l’adunata di Pontida potrebbe partorire nulla di più che qualche annuncio e qualche slogan, magari più colorito del solito. Solo in un caso la Lega potrebbe davvero rompere con Berlusconi: se la sua base mostrasse, in modo ancor più deciso di quanto ha mostrato alle amministrative e ai referendum, di non poterne davvero più. Ma in quel caso assisteremmo probabilmente, oltre che alla fine di un’alleanza, anche alla fine di una leadership. Quella di Bossi. Perché vorrebbe dire che pure lui, e non solo Berlusconi, ha perso la capacità di intercettare per tempo gli umori del proprio popolo.

La Stampa 15.06.11

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Il Senatúr nel mirino dei leghisti veneti: “Adesso passi la mano”, di MARCO ALFIERI

Piccoli leghisti crescono», sibila Bepi Covre, mitico sindaco di Oderzo negli Anni Novanta, parlamentare del Carroccio dal ’96 al 2001. «Dietro Flavio Tosi e Luca Zaia c’è un’intera pattuglia di sindaci 40enni, gente che si è fatta sul campo e ragiona con la propria testa. Lo si è visto sui referendum…», alla faccia delle parole del Capo. Oggi Covre è tornato a fare l’imprenditore, si definisce «un leghista di fede maronita», ma resta un gran «confessore» di lighisti veneti, come amano chiamarsi da queste parti quadri e militanti ricordando ogni volta che «la Liga è nata nel 1980 mentre la Lega lombarda solo nel 1984, prima di farsi federare dal carisma padano di Umberto Bossi», come ricorda Francesco Jori nel suo bel libro Dalla Liga alla Lega . «C’è in giro molta effervescenza nel partito», conferma l’ex sindaco di Oderzo. «La politica italiana ha un grande difetto: una classe dirigente inamovibile. La gente non ne può più». In questi tempi globali «i totem vanno messi da parte. Anche Bossi, certo. Un grande attore sa quando uscire di scena». Intendiamoci, «Umberto è un mito, è la Lega, ma oggi deve capire che è il momento di passare la mano». Si prenda Zaia: «Sul referendum ha fiutato l’aria portandosi dietro mezza giunta» (gli assessori Stival, Conte e Ciambetti), il capogruppo in Regione Caner e i consiglieri Baggio, Bassi, Corazzari, Finco, Sandri e Tosato. Tutti frondisti. «Abbiamo incontrato decine di militanti favorevoli all’acqua pubblica e contrari al nucleare, pronti ad andare a votare», conferma Caner. Non era mai successo. «Questo fiuto Bossi e Berlusconi non ce l’hanno più», chiosa Covre. Naturalmente lui può parlare liberalmente ma dentro al corpaccione lighista è tutto un darsi di gomito. «Mettiamola così», confessa un dirigente di primo piano: «ci si rende conto che è partito il countdown sul dopo Bossi e ci si riallinea».

In questo Tosi e Zaia incarnano una posizione più matura: la chimera del lighismo autonomo dal partito lombardo non porta lontano. Ogni volta che qualcuno ha provato ad alzarsi da terra è stato decapitato dal Senatur. Franco Rocchetta e Fabrizio Comencini ancora se lo ricordano. Quest’ultimo nel ’98 fu purgato quando strappò portandosi via dal gruppo regionale 7 consiglieri su otto. Con il Capo rimase solo Giampaolo Gobbo e da quel momento Bossi gli ha affidato le chiavi del partito. «Per questo un accordo con la Lombardia resta strategico per i giovani leoni», continua la fonte. «Anche qui, la partita è pro o contro Maroni». Il sindaco di Verona sta con Bobo, il trevigiano Zaia è più doroteo, per ora non si schiera, anche perché dentro al partito Tosi è più forte e lo scontro è con il segretario regionale Gobbo, l’uomo della pax bossianlombarda nella ex Serenissima. Nel frattempo si smarcano entrambi: Tosi da Gobbo su episodi simbolici come la visita del presidente Napolitano e la battaglia congressuale per le segreterie provinciali; Zaia, appunto, sui referendum. Entrambi sanno che la protesta sta montando in casa. Sui blog dei militanti i più scalmanati a chiedere un ricambio nella leadership o di mollare i lombardi «imborghesiti» per tornare alla purezza del lighismo, sono proprio i veneti. A Treviso, nel feudo di Zaia, dalle Regionali 2010 alle provinciali del mese scorso il Carroccio ha perso per strada 91 mila voti, parzialmente recuperati solo grazie alla lista civica «Razza Piave» (37 mila voti) che ha fatto da cestino per i duri e puri delusi dal forza-leghismo di governo. «Ai referendum i veneti si sono presi la loro autonomia senza guardare in faccia nessuno, non vedendo i segni concreti delle riforme promesse», ammette il leghista Franco Manzato, assessore regionale all’agricoltura.

Certo, «ad oggi non vedo alternative a Bossi. Il Capo è amato dalla base, i colonnelli invece rispettati, cosa diversa». Anche se, continua Manzato, «qualsiasi governo se oggi non fa riforme tangibili non dura. Non c’è Bossi o Berlusconi che tengano». Il dopo Bossi? «In politica tutto è possibile tanto più se soffriamo un berlusconismo che non funziona», gli fa eco Toni Da Re, sindaco leghista di Vittorio Veneto. Dopodiché se «il prossimo leader sia veneto o lombardo, l’importante che sappia dove portarci». Due mesi fa, l’idea della successione, sarebbe suonata fantapolitica.

La Stampa 15.04.11