attualità, politica italiana

"Una buona occasione per salvare i referendum", di Michele Ainis

Primo turno, ballottaggi, referendum: e tre. Ci vorrà un atto d’eroismo per metterci in fila davanti ai seggi elettorali, quando ce lo chiedono per la terza volta in quattro settimane. Perché il governo ha rifiutato d’accorpare i referendum alle amministrative, anche a costo di gettare al vento 300 milioni. Perché ci mandano a votare senza spiegarci a che serve il nostro voto, tanto che l’Agcom ha preso carta e penna per inviare una solenne rampogna a mamma Rai.
Perchémagari si tratterà d’una fatica inutile, dato che gli ultimi 24 referendum hanno fatto cilecca, dato che da 14 anni nessuna consultazione popolare ha più raggiunto il quorum. E perché infine i 4 referendum che ci aspettano al varco cadono in un clima surreale, mentre i partiti si esibiscono in una sagra delle ipocrisie. Qual è infatti l’oggetto dei quesiti? Nucleare, acqua pubblica, legittimo impedimento. Ma sullo sfondo si staglia a lettere maiuscole una domanda più generale, più assorbente. Questa domanda investe la popolarità del quarto gabinetto Berlusconi, la sua capacità di riflettere gli umori prevalenti del Paese. Domanda impropria, ma poi neppure tanto. Perché la politica energetica, le privatizzazioni, le leggi ad personam corrispondono ad altrettante scelte strategiche dell’esecutivo in carica, ne disegnano il profilo, nel bene o nel male. E perché ogni referendum si carica di significati evocativi, ben al di là del suo oggetto specifico. Accadde già nel 1974, in occasione del primo referendum, quando il quesito sul divorzio finì per interrogare la laicità degli italiani, il loro grado d’obbedienza rispetto al Vaticano. Ma è un effetto fisiologico, giacché nei referendum si esprime la volontà popolare, senza filtri, senza mediazioni, e allora la sovranità diventa come un’onda che tracima dalle dighe. Non a caso la seconda Repubblica di cui siamo inquilini fu allevata da un referendum, quello del 1993 sulla legge elettorale. Ma tutto ciò è tabù, non se ne può parlare. O almeno non ne parla la politica, che difatti è impegnata in un singolare gioco delle parti. L’opposizione — da Bersani a Di Pietro— si sgola per convincere il popolo votante che questi referendum non sono affatto un’ordalia su Berlusconi. Per forza: altrimenti gli elettori del centrodestra resteranno a casa, e a sua volta il quorum resterà un miraggio. Il conto al governo verrà presentato dopo, se i referendum avranno successo nelle urne. Specularmente il presidente del Consiglio vede questa consultazione come il diavolo, però non lo può dire. E allora fa parlare l’Avvocatura dello Stato, chiedendole di sostenere dinanzi alla Consulta l’inammissibilità del nuovo quesito sulle centrali nucleari. Lascia libertà di coscienza ai propri elettori, aggiungendo che comunque i referendum sono inutili, non cambieranno nulla. E in conclusione mette le mani avanti: quale ne sia l’esito, il governo tirerà per la sua strada. Mettiamole anche noi, le mani avanti. Mettiamole sulle schede colorate che ci consegneranno tra una settimana, senza farci condizionare dai giochini dei partiti. Perché è vero, questi referendum hanno ormai assunto un valore simbolico, virtuale. Quello sul legittimo impedimento tocca una legge amputata già dalla Consulta, tant’è che Berlusconi ogni lunedì lo passa in tribunale. Quello sul nucleare concerne una legge amputata dalla stessa maggioranza di governo, sicché voteremo su un indirizzo normativo, anziché su norme vere e proprie. Ma il vero oggetto di questi referendum è lo stesso referendum, inteso come istituto di democrazia diretta, come canale di decisioni collettive. Un altro fiasco ne decreterebbe i funerali. E tuttavia dopo innumerevoli appelli all’astensione, dopo la fortuna bipartisan del trucchetto che ha messo in crisi i referendum, stavolta nessun partito ha la faccia tosta di consigliarci una vacanza al mare. Hanno capito che soffia un’aria nuova, e non vogliono beccarsi un raffreddore. Se quest’aria gonfierà le urne, magari lorsignori si decideranno ad abolire il quorum, o a correggerlo al ribasso. Dopotutto, se esistesse un quorum per le elezioni provinciali (dove ha votato il 45%), avremmo già abolito le province.

Il Corriere della Sera 05.06.11

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