Un incredibile spreco di talenti. Nelle sue ultime considerazioni da governatore della Banca d’Italia Mario Draghi per la prima volta parla apertamente della questione femminile che caratterizza il nostro Paese. «La scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro è un fattore cruciale di debolezza del sistema» , ha detto ieri Draghi, ricordando come le donne si laureino di più e meglio degli uomini, e da tempo non più solo nelle materie umanistiche. Eppure «in Italia l’occupazione femminile è ferma al 46%della popolazione in età da lavoro, 20 punti in meno di quella maschile» ; «è più bassa che in quasi tutti i Paesi europei, soprattutto nelle posizioni più elevate e per le donne con figli» ; le retribuzioni «a parità di istruzione ed esperienza, sono inferiori del 10%a quelle maschili» ; il tempo di cura della casa a carico delle donne «resta in Italia molto maggiore che negli altri Paesi» . Aiuterebbero — ha concluso Draghi — «maggiori servizi e una organizzazione del lavoro volti a consentire una migliore conciliazione tra vita e lavoro, una riduzione dei disincentivi impliciti nel regime fiscale» . Le parole di Draghi arrivano a pochi giorni di distanza dal rapporto annuale dell’Istat che proprio di questa «anomalia» italiana ha fatto il proprio focus. Ma, se è la prima volta che ne parla pubblicamente, chi conosce Draghi sa che questo è un tema che ha ispirato anche la sua attività di governatore. Con lui, per esempio, Anna Maria Tarantola ha guidato la Vigilanza ed è entrata, prima donna, nel direttorio di Bankitalia. E la stessa Tarantola, nella sua prima intervista, al Corriere della Sera, ha indicato le quote di genere come strumento per fare «un favore al Paese, che non può permettersi di avere il 50%di talenti femminili inutilizzato» . Goldman Sachs ha stimato che la parità di genere tra gli occupati potrebbe produrre incrementi del Pil (Prodotto interno lordo) del 13%nell’Eurozona e del 22%in Italia e nei Paesi più lontani dall’uguaglianza. Oltre ad agire da volano per occupazione aggiuntiva (per servizi sociali, lavori domestici, ecc.). Gli studi dicono, inoltre, che le imprese con consigli di amministrazione misti hanno risultati migliori. Eccolo, lo spreco. Nell’arco «di poche decine di anni» le donne sono passate «da uno svantaggio a un vantaggio» in termini di formazione e di cultura personale, spiega Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell’Istat. Sono entrate in tutti i corsi di studio, leggono di più, vanno più al cinema, a teatro, ai concerti: «Ma quando tutto questo investimento si deve tradurre in riuscita lavorativa trova di fronte a sé barriere fortissime» . Le donne — dice Sabbadini — «hanno maggiori difficoltà di accesso, maggior frequenza di interruzioni soprattutto per motivi legati alla nascita dei figli e una maggiore esposizione e permanenza nella precarietà. Hanno, inoltre, una maggiore sovra-istruzione rispetto ai lavori svolti, indice di una mancata valorizzazione del capitale umano femminile. Infine, una maggiore disoccupazione e inattività soprattutto per scoraggiamento. Problemi a cui si aggiunge la scarsa presenza nei luoghi decisionali» . Eppure quest’anno si è parlato moltissimo di donne nei consigli di amministrazione (cda) per il progetto di legge Golfo Mosca teso a introdurre le cosiddette «quote rosa» , nei cda. Come la legge non è ancora diventata realtà, così non si è tradotto in numeri il dibattito. L’indagine di Cerved Group sulle aziende italiane con più di 10 milioni di fatturato di pochi giorni fa dice che a fine 2010 meno di un’impresa su due aveva tra i propri amministratori una donna, peraltro «confinata» nelle imprese di minori dimensioni. «Al ritmo osservato negli ultimi tre anni — è stata la conclusione — bisogna aspettare fino al 2022 perché le imprese miste diventino la maggioranza tra quelle analizzate» . «Il punto è nel bacino cui si può attingere— spiega Alessandra Romanò, che ha realizzato lo studio —. Troppe poche donne lavorano e, tra coloro che lavorano, sono troppo poche quelle che riescono a raggiungere la prima linea» . Le dirigenti nel 2010 sono diminuite del 10,1%, in compenso le donne sono il 60%tra gli impiegati. Perché spesso lì si fermano quando diventano madri. «I figli rappresentano una criticità forte— dice Sabbadini —. Mentre il matrimonio non è più una causa per abbandonare il lavoro, come accadeva in passato, diventare madri continua a esserlo: l’offerta di servizi sociali per l’infanzia rimane bassa e le nonne diventano la risorsa fondamentale per la conciliazione delle figlie. Ma queste nonne sono sempre più sovraccariche, perché, con l’allungarsi della vita media, devono occuparsi di accudire anche genitori ultraottantenni» . Il punto, insomma, è sempre lì. Su quel «richiamo» arrivato nelle scorse settimane dall’Ocse sulla necessità di politiche che permettano di conciliare famiglia e lavoro perché «in Italia il lavoro retribuito è in contrasto con l’avere figli» . Oggi solo l’ 1,4%del Pil è destinato alle famiglie. Ma quali politiche? «Tutte le ricerche ci dicono che bisogna intervenire su tre fronti — dice Daniela Del Boca, docente di Economia politica all’Università di Torino e direttore del Centro Child —: aumento degli asili nido, aumento del part time e congedi parentali condivisi e pagati più del 30% di oggi. Queste tre politiche hanno dimostrato di funzionare. Sul fronte degli incentivi possiamo attingere all’esperienza della Gran Bretagna dove, attraverso detrazioni fiscali concesse alle donne che lavorano e delegano il lavoro di cura, si creano incentivi al lavoro femminile e si fa emergere lavoro nero» .
Il Corriere della Sera 01.06.11