In quindici giorni il volto dell’Italia è cambiato. La trasformazione è profonda e radicale. Certo, si tratta di un voto amministrativo, riguarda il governo delle città e manca la controprova che gli italiani voterebbero allo stesso modo se domani fossero chiamati a esprimersi nelle elezioni politiche. Sotto questo aspetto, i toni enfatici del governatore Vendola sembrano alquanto prematuri, per non dire inopportuni, in un centrosinistra che sa di essere solo all’inizio di un lungo percorso.
Tuttavia quel che è accaduto a Milano, Napoli, Trieste, Cagliari, Novara e in altri centri assomiglia a una rivoluzione. Nel Nord si è spezzato il filo di una relazione speciale e ormai antica fra l’asse politico Pdl-Lega e l’Italia dei ceti produttivi. Pisapia a Milano ha vinto non in quanto pericoloso eversore, bensì come riconosciuto rappresentante di un «establishment» cittadino desideroso di aria nuova. E va dato atto al sindaco eletto di aver usato subito parole di riconciliazione.
Nel Sud, a Napoli, il centrodestra è stato punito al di là dei suoi demeriti per aver promesso molto e realizzato poco. È sorprendente come Berlusconi sia riuscito a dilapidare il capitale di fiducia di cui godeva nel 2008, quando garantì che avrebbe vuotato le strade dalla spazzatura lasciata marcire dalle giunte di centrosinistra. Tre anni dopo, il suo candidato Lettieri è rimasto trenta punti indietro rispetto a un ex magistrato che ha saputo rendersi credibile agli occhi del 65% dei votanti, pur provenendo dalle file del centrosinistra.
Un’impresa sulla carta quasi impossibile. Anche altrove il vento ha soffiato impetuoso, quasi sempre contro i candidati del centrodestra. A Cagliari ha vinto un giovane vendoliano. A Trieste, città che di sicuro non ha mai avuto un’anima di sinistra, il candidato berlusconiano è rimasto al palo. A Novara, città del governatore del Piemonte, Cota, ha perso l’uomo del Carroccio (si dice che lì e in altri luoghi gli elettori non abbiano gradito il disprezzo con cui i seguaci di Bossi hanno trattato il 150esimo dell’Unità d’Italia).
È uno scenario inedito, quello che emerge dal voto. Diciassette anni dopo la prima vittoria, anch’essa a suo modo “rivoluzionaria”, di Silvio Berlusconi, i ballottaggi segnano il tramonto di un’era politica. Questo è il dato che non può essere misconosciuto. Il presidente del Consiglio può affermare che «il Governo va avanti» perché Bossi glielo ha garantito al telefono. Può assicurare che adesso «si faranno le riforme» perché tutti nella maggioranza ne sono convinti. Maroni e Calderoli possono accennare alla necessità di «un colpo di frusta». È tutto legittimo, eppure è poco convincente.
Il Sole 24 Ore 31.05.11