Nel mezzo dell’autunno italiano, mentre un’onda di ragazzi riempiva le strade a difesa di istruzione e formazione pubblica, altre migliaia di ragazzi continuavano a lavorare nei bar e nelle officine; servivano a tavola, fabbricavano pantaloni, camicie e borse in piccole manifatture nascoste nei vicoli o in periferia. Per sei o settecento euro al mese. O decidevano di prendere il treno come avevano fatto i loro nonni per entrare in una fabbrica lontana, tornando ogni sera in un appartamento diviso con gli amici del quartiere con cui si erano dati reciproco coraggio per partire. Diciassette, diciannove, ventuno anni. Pochi parlano di questa onda silenziosa, fatta da ragazzi e ragazze di un’altra Italia.
Nel mezzo dello stesso autunno, una sera veniva fatto fuoco su quattro ragazzini davanti a una sala giochi, a cinque chilometri dal centro della terza città italiana, probabilmente da parte di altri ragazzi, legati alla malavita organizzata. E qualcuno per un giorno si è chiesto come mai. Ma né i giornali né le tv si sono interrogati più di tanto sulle persone dell’età dei ragazzi dell’onda o più piccoli che sono parte di tribù adolescenziali e giovanili senza rete e fuori controllo e troppe volte già in balia dei miti e dei comportamenti ispirati al crimine organizzato. Fatti di modelli e riti che tanto più attraggono quanto più forniscono una sponda identitaria, un’appartenenza.
C’è un mare fatto da centinaia di migliaia di ragazzi italiani che hanno lasciato presto la scuola o l’hanno fatta male o comunque sono andati presto a lavorare. Spesso in regime di precarietà, di bassi salari, con mansioni a basso contenuto di sapere e di apprendimento e con quasi nessuna prospettiva di futura formazione. Al Nord come al Sud, questi nostri giovani concittadini producono ricchezza. Senza avere in cambio alcuna reale prospettiva di «sviluppo umano» che ogni paese civile dovrebbe dare ai suoi figli nati meno fortunati. Ve ne sono, inoltre, alcune migliaia che ogni giorno vivono nella immediata vicinanza di mercati illeciti o criminali, in prossimità di armi da fuoco e di alcool. E di sostanze che generano comportamenti incontrollabili e danni duraturi, ottenibili a costi irrisori.
Di chi sono figli questi nostri giovani concittadini con poca scuola? Sono quasi tutti figli di famiglie che vivono sotto la soglia di povertà. E non sono pochi. Secondo l’Istat i minori poveri in Italia sono 1 milione e 809 mila, il 17% del totale; ma di questi, 1 milione e 245 mila risiede nel Mezzogiorno. E’ il 70 percento del totale dei bambini e ragazzi poveri italiani, uno su tre dei minori meridionali, concentrati nelle grandi aree urbane.
La nostra scuola o non li conquista o comunque non riesce a favorire la loro emancipazione dall’esclusione precoce. Proprio no. E’ fatta per gli altri. Nonostante i molti sforzi di tanti di noi. E la scuola pubblica, per essere tale, non può essere più difesa così com’è. Deve cambiare. Sono i fatti ad esigerlo. Il «Social situation report 2007» della Unione Europea ce lo conferma: la nostra scuola rimane di classe. Più che altrove. I figli di chi ha fatto l’università e ha un lavoro sicuro hanno sempre più possibilità di completare bene l’intero corso degli studi. Tale possibilità va moltiplicata per 2,1 per la Germania, per 2,4 per il Regno Unito, per 2,8 per l’Olanda, per 3,3 per Spagna e Francia, per 3,6 per la media dei 25 paesi dell’Unione Europea. Ma in Italia la possibilità del figlio di chi ha studiato e ha un buon lavoro di finire bene scuola e università è di ben 7,7 volte quella del figlio di chi ha in tasca la terza media! E l’istruzione ancora serve a vivere meglio. E’ il primo fattore a determinare buon lavoro e guadagno. E’ il primo antidoto alle dipendenze, alle malattie mal curate, alla violenza recata e subita, alle povertà.
L’Italia subito dopo la vittoria della Repubblica, mostrò di esistere anche perché la sua parte migliore, di ogni colore politico, del Nord e del Sud, riconobbe nel libro di Carlo Levi – «Cristo si è fermato ad Eboli» – che vi era una parte d’Italia chiusa nella miseria, esclusa dalle possibilità, che doveva ricevere risposte. Oggi le risposte le si devono ai bambini e ai ragazzi figli di poveri. E del Mezzogiorno in particolare. Ci vuole una grande politica. Che metta insieme le esperienze migliori di scuola, volontariato, banche, imprese. Che ripristini, certo, la forza della legge. Che deve tornare a difendere i diritti e a presidiare i limiti e a essere visibile ai ragazzi di tanti quartieri pieni di rischi. Ma che offra anche scuola innovata, vera formazione. E lavoro dove si produce, si guadagna e si impara anche.
L’Unità 05.02.09
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