Come è possibile essere al tempo stesso moderati e estremisti? Come ci si può adeguare a un modus, a una misura, a una regola e però essere anche smisurati, prevaricatori, esagerati?
Non è un interrogativo retorico, né un´ipotesi accademica. È la nostra esperienza quotidiana di cittadini mortificati – oltre che infastiditi – dalla campagna elettorale milanese della destra, dalla sua violenza che si accompagna alla sua banalità.
Una prima risposta è che anche un moderato diventa estremista quando ne va della sua vita: la sindrome del cornered rat, del topo costretto all´angolo, è ben nota agli etologi – e anche agli storici, del resto – , che sanno quante disperate risorse, quanta aggressività supplementare, quanto cieco fanatismo, possano caratterizzare la lotta per la vita e per la morte (in questo caso politica, s´intende). Ora, questa spiegazione ha del vero: può infatti svilupparsi un “effetto domino” dalla eventuale sconfitta di Berlusconi (la Moratti in tutto ciò è periferica), che come una valanga inarrestabile va dalla perdita di Milano alla perdita di Roma, cioè alla crisi di governo; e che di qui passa in una possibile sconfitta elettorale nel 2013, o anche prima; il che implicherebbe non solo un addio ai sogni di gloria quirinalizia, ma anche un rischio giudiziario imminente, nella sopravvenuta impossibilità di portare a termine il complesso dispositivo di leggi e riforme costituzionali che dovrebbero sancire la salvezza del premier e la debellatio della magistratura.
Ma forse è una spiegazione che spiega fin troppo; infatti, non è detto che la gravissima ferita simbolica e politica che verrebbe a Berlusconi dalla vittoria di Pisapia debba produrre necessariamente tanta catastrofe: gli effetti negativi possono essere gestiti, le ferite possono essere cicatrizzate e trattate dalla chirurgia plastica. Il tempo c´è: due anni. Il prezzo della sconfitta di Milano potrebbe essere “solo” un ulteriore deterioramento dell´immagine e del potere del premier, a tutto vantaggio della Lega – che però senza Berlusconi non ha grandi prospettive (e viceversa, naturalmente) – e di Tremonti (la vera variabile è infatti la ripresa economica e la tenuta dei conti pubblici). Ipotesi a cui Berlusconi ha già fatto il callo.
È quindi probabile che alla spiegazione attraverso la categoria della “disperazione” se ne debba aggiungere un´altra, non contingente ma strutturale. Che cioè Berlusconi, col nucleo duro del suo elettorato, non è moderato. E che le categorie con cui interpretare la sua politica, ma anche la politica in generale, non siano soltanto quelle che si dispongono lungo l´asse orizzontale moderazione-estremismo, ma che a esse se ne debbano aggiungere altre, verticali: le categorie di “superficiale” e “radicale” (o “profondo”), che si accompagnano a quelle di “miope” e “lungimirante”.
La destra nella sua versione italica contemporanea non è moderata: né nei toni né nella sostanza. Della propria dismisura, anzi, si fa vanto, con accenti neo-dannunziani o neo-autoritari (a seconda dei casi, e degli attori politici): la sua ostilità al concetto stesso di legge e di garanzia costituzionale ne è la prova. Ciò che la caratterizza veramente è la superficialità, lo scambiare gli effetti per le cause, il rifiuto della critica, sostituita dall´invettiva o dall´argomento ad personam («lei dice queste cose perché è di sinistra»), l´abbarbicarsi ai luoghi comuni rafforzati dalle grida scomposte. Questa superficialità si sposa benissimo, infatti, con l´estremismo, che la destra evidenzia con abbondanza: questo, da parte sua, altro non è se non la fuga (in avanti o all´indietro) dalla complessità concreta della realtà, e della politica che voglia essere qualcosa di più che pura cosmesi o inconcludente illusionismo. Davanti a questa complessità, che per essere compresa esige profondità e radicalità d´analisi, la destra superficiale e estremista scarta, accusando chi se ne fa portatore di essere un “comunista”.
Ovvero, alle analisi che vanno alla radice, e che guardano lontano, preferisce la miopia. Preferisce cioè offrire (falsamente) ministeri a Milano – nella logica assistenziale e clientelare che a suo tempo spostava al Sud prefetture, carceri e caserme, per garantire qualche posto di lavoro – anziché progettare sviluppo di stile europeo; offre il timore irriflesso di neri, islamici e zingari anziché un´immagine di cosmopolitismo civile e creativo. E, contro ogni evidenza, tratta Pisapia da estremista – o da paravento degli estremisti – perché scambia ogni radicalismo, e ogni lungimiranza, per estremismo; perché non comprende – non avendo né l´una né l´altra qualità – come si possa essere “radicali” e al contempo “moderati”; perché ignora che essere “moderati” non significa essere egoisti, né indica solo la pratica del “giusto mezzo” ma implica soprattutto pacatezza di modi, equilibrio di giudizio, misura intellettuale e politica, rispetto di sé e degli altri pur nella capacità di opporsi all´avversario politico.
Ecco perché, infine, la destra di governo, oggi, non ha le qualità solide e severe della borghesia produttiva e del proletariato (non a caso sempre più vicini a Pisapia): perché è una destra plebea, guidata dai magnati populisti, per i propri interessi particolari, al prezzo della concessione al “popolo” di qualche soddisfazione simbolica ai danni delle élites. Uno schema, già visto mille volte nella storia, di cui potrebbe cominciare a Milano l´inizio della fine.
La Repubblica 25 05.11