Il 18,8% di ragazzi in Italia lascia gli studi subito dopo gli anni dell´obbligo e non cerca lavoro. In un anno il numero dei “Neet” è salito di 134.000 unità.
La crisi arriva tra i 16 e i 17 anni: ci si sente grandi e le regole vanno strette, la scuola appare faticosa, noiosa, staccata dalla realtà, i prof, poveracci, degli adulti che guadagnano poco e si sgolano in classe, e il lavoro poi, un miraggio, una chimera, e studiare o non studiare in fondo è lo stesso. Storie di ragazzi che un giorno hanno detto no. Che una mattina hanno deciso di non entrare più in classe. Di buttare alle ortiche libri, quaderni, interrogazioni, compiti in classe, voti, giudizi. Ma anche le cose belle della scuola, come le gite, gli amici, lo sport. C´è un numero enorme di giovani (il 18,8%) che in Italia continua ad abbandonare gli studi, subito dopo gli anni dell´obbligo, e che a vent´anni, quando si entra nell´età adulta, si ritrova sperduto, senza nulla in mano. Perché se è vero che il diploma conta poco, e la laurea poco di più, non averli vuol dire essere fuori, diventare invisibili, drop out, pronti ad entrare nell´esercito crescente dei Neet, quegli oltre due milioni di giovani italiani tra i 15 e i 29 anni, così si legge nel rapporto Istat 2011, che non lavorano, non studiano, non hanno formazione. Sono gli esiliati. Gli sfiduciati. in una parola Neet: not in education, employment or training. In un anno oltre 134 mila giovani in più espulsi o autoespulsi dal mondo produttivo.
C´è chi si aliena davanti al computer, nello stile degli hikikomori, quegli adolescenti che decidono che il mondo è nella loro camera da letto e nei rapporti virtuali della Rete. Oppure ci sono gli altri. Come Antonio, Camilla, Sharon, Lorenzo: basta entrare in un centro commerciale per trovarli. Passano il tempo guardando le cose, le merci, gli oggetti, ma non spendono, perché i soldi non ci sono, e i pochi a disposizione servono per il cellulare. Eccoli, a Roma, Cinecittà Due, megastore vicino agli storici studi cinematografici, ma loro non ci entrano, meglio l´aria condizionata indoor, la musica diffusa, l´odore di Big Mac. Camilla, 18 anni: «Facevo l´alberghiero, ma ero sempre l´ultima della classe. Mi annoiavo. I professori mi trattavano male. A mia madre hanno detto che non riuscivo ad apprendere. Insomma che ero cretina. Ho lasciato, mi sono iscritta al collocamento, e adesso quando capita faccio la cameriera nei bar… Tanto anche se avessi preso il diploma avrei fatto comunque la cameriera». Diversa (ma uguale) la storia di Lorenzo, che di anni ne ha 17, Ipod nelle orecchie, e fino a gennaio scorso studente del liceo scientifico “Isacco Newton”. «I miei genitori dicono che sono pazzo. Che finirò male. Ma io a scuola non ce la facevo più. Non mi interessa. Non mi servirà a trovare lavoro. Mio zio ha un´officina, magari mi aiuta. Però i miei compagni li vedo: li aspetto ogni giorno alle 13,30 all´uscita e ci andiamo a prendere una birra».
Storie normali. Di ragazzi normali. Per i quali però, spiega Milena Santerini, docente di Pedagogia Generale all´università Cattolica di Milano, «la scuola ha perso completamente di significato, la spiegazione non si trova soltanto nei dati economici, nella mancanza di cultura delle famiglie d´origine, è che i giovani non capiscono più il senso di passare tanto tempo tra i banchi, tra professori che utilizzano un linguaggio anni luce lontano dal loro, in una società che anno dopo anno svaluta sempre di più il ruolo della cultura». E una fascia di giovanissimi, forse la più fragile, ormai cresciuta nella rassegnazione al precariato, aggiunge Milena Santerini, «alla prima difficoltà lascia, pensando magari di potercela fare con altri mezzi, in una visione irrealistica di sé e del mondo che li circonda».
Certo, non ci sono soltanto i potenziali Neet tra coloro che abbandonano la scuola. Perché la dispersione scolastica, il fenomeno è noto, è alta e costante anche nelle regioni ricche, dove il lavoro, seppure più scarso, c´è ancora. E allora i teenager del Nord Est mollano e vanno a bottega, racconta lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, che ne ha seguiti diversi nelle industrie del bresciano e del vicentino. «Questi ragazzi non capivano proprio perché continuare a perdere tempo all´istituto tecnico, quando potevano entrare nell´aziendina di famiglia e farsi le ossa, avendo anche un po´ di soldi in tasca. Non ho visto alcuna nostalgia della scuola in loro, ma anzi l´orgoglio di chi ha abbandonato un luogo da ragazzi, con i compiti, i prof, per entrare prestissimo nel mondo adulto… Ma questi sono i “fuggitivi” più fortunati. Chi lascia la scuola e non ha il paracadute del lavoro rischia grosso, rischia la deriva, il branco, rischia di deprimersi e chiudersi in se stesso».
E allora le famiglie corrono ai ripari. «I miei dicono che potrei fare due anni in uno privatamente, mi aiuteranno…». «Siamo l´unico paese in Europa che in tempo di crisi ha tagliato sulla scuola – dice sconfortato un pedagogista famoso, Benedetto Vertecchi – e poi ci meravigliamo se gli studenti se ne vanno. Apriamo le aule il pomeriggio, facciamoli suonare, fare teatro, laboratori, rendiamo la scuola un contenitore di vita e non soltanto di nozioni. I ragazzi non fuggiranno più. Ci hanno provato in Finlandia e il tasso di dispersione è drasticamente crollato. Perché non possiamo provarci noi?».
La Repubblica 24.05.11