Una società mobilitata per far fronte ai bisogni quotidiani e alle difficoltà provocate da una crisi economica da cui non è ancora uscita.Ma anche una società con poco fiato per orizzonti un po´ più lunghi e larghi. È questa l´immagine dell´Italia che emerge dal Rapporto Annuale dell´ISTAT relativo al 2010. In questo quadro emerge, ancora una volta, il ruolo fondamentale giocato dalle famiglie come ammortizzatore sociale a tutto campo. Ma emergono anche le tensioni, i punti di rottura, di un sistema troppo sovraccarico ed anche troppo squilibrato.
Così, a fronte della insicurezza nel mercato del lavoro, alla riduzione delle occupazioni a tempo indeterminato e al prolungarsi dei periodi di disoccupazione, si è erosa anche la tradizionale capacità di risparmio delle famiglie. E se è vero che la solidarietà famigliare ha contenuto l´impatto della perdita di occupazione, ciò si è tradotto in un rafforzamento della dipendenza economica dei giovani dai propri genitori. La percentuale di giovani tra i 15 e i 24 anni che non sono né in formazione né occupati è ulteriormente aumentata, raggiungendo il 22,1 per cento: quasi un quarto di tutti i giovani di quella età, con prevedibili effetti di lungo periodo sulle loro opportunità e sui rischi di esclusione sociale. Un tragico paradosso in un contesto di rapido invecchiamento come quello italiano che richiederebbe di non sprecare una risorsa, i giovani, sempre più scarsa.
Un discorso a parte va fatto per le donne, sulle quali sembrano concentrarsi tutte le tensioni e contraddizioni di una società bloccata. Il già troppo lento aumento dei tassi di occupazione femminile si è fermato. In più, per la prima volta in decenni, l´istruzione non sembra più costituire una chance in più. A fronte di una diminuzione nelle occupazioni qualificate, le uniche occupazioni che sono aumentate un po´ sono infatti quelle poco qualificate nei servizi: pulizie, collaboratrici domestiche, badanti (per lo più straniere). E´ anche aumentato il part time involontario ed il numero di donne che sono occupate in mansioni molto al di sotto delle loro qualifiche (sono il 40% delle occupate, a fronte del già notevole 31% degli occupati). Questi fenomeni non costituiscono solo uno spreco sociale e umano. Come nel caso dei giovani, riducono le possibilità di autonomia economica delle donne, non solo rispetto ai genitori, ma anche ai mariti e partner, di fatto vincolandone la libertà.
Che siano occupate o meno, per altro, moltissime donne fanno gratis una enorme mole di lavoro necessario. Senza di loro, moltissimi bisogni rimarrebbero insoddisfatti in un welfare sempre più inadeguato rispetto alla situazione demografica e sociale. Non mi riferisco solo al lavoro famigliare, che le donne svolgono in misura molto superiore ai loro partner, anche quando sono occupate. Mi riferisco ai 2,1 miliardi di ore di aiuto prestate in un anno a componenti di altre famiglie – dei figli, genitori, amici, conoscenti – pari ai due terzi del totale di lavoro prestato in modo gratuito fuori dalla propria famiglia. Senza questo lavoro � di cura, domestico, di accompagnamento nella vita quotidiana � molte madri giovani non potrebbero neppure stare nel mercato del lavoro e molti anziani non del tutto autosufficienti non potrebbero far fronte ai loro bisogni quotidiani. Ma la catena di solidarietà femminile tra madri e figlie su cui è fondata questa rete di aiuto informale rischia di spezzarsi. Le donne occupate con figli sono, infatti, sovraccariche per il lavoro di cura all´interno della famiglia e le nonne sono sempre più schiacciate tra cura dei nipoti, dei genitori anziani non autosufficienti e dei figli adulti che continuano a vivere con loro. Alcune crepe sono già visibili. Quasi 2 milioni di persone con limitazioni della salute non sono state raggiunte da alcun tipo di sostegno, né della rete informale né da parte dei servizi pubblici, pur vivendo sole, o con altre persone con limitazioni, o in un contesto familiare parzialmente o del tutto incapace di rispondere ai loro bisogni. Inoltre, se il rischio di sovraccarico e non tenuta della solidarietà famigliare e in particolare quella femminile è in tensione è generalizzato, la situazione è più critica nel Mezzogiorno, dove alla maggiore carenza del welfare pubblico e alla maggiore carico di dipendenze economiche nella famiglia, si aggiunge una minore capacità delle famiglie di far fronte a tutti i bisogni. E´ nelle regioni meridionali che le domande di cura dei più piccoli e degli anziani fragili rischiano di più di rimane insoddisfatte. Anche questo è un indicatore del fatto che la questione meridionale non riguarda solo l´occupazione, ma la tenuta sociale complessiva, a livello formale e informale.
La Repubblica 24.05.11
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“Rassegnazione, male italiano”, IRENE TINAGLI
Tutti a casa». Un tempo era un grido di protesta rivolto ai politici, oggi sembra piuttosto una realtà di rassegnazione per milioni di Italiani. Tra i molti dati e analisi presenti nell’ultimo rapporto dell’Istat colpisce in modo particolare la persistenza in Italia di un bacino di inattività altissimo, soprattutto tra i giovani e le donne. Non persone disoccupate in cerca di lavoro, semplicemente ferme. Secondo i calcoli dell’Istat sono circa 3 milioni. Una cifra enorme. E la cosa più preoccupante è che per ben due milioni di queste persone il motivo di questa inattività è la convinzione che, tanto, sia inutile anche cercare lavoro. L’Istat li definisce gli inattivi scoraggiati. La loro percentuale sulla forza lavoro in Italia è più che doppia rispetto alla media degli altri Paesi europei, e sei volte superiore a quella della Francia.
Siamo così di fronte ad una sorta di paradosso. Da un lato un tasso di disoccupazione ufficiale che è migliore di quello di molti altri Paesi europei (8,4% contro una media europea del 9,6%), dall’altro però un tasso di inattività che non ha eguali, arrivato al 37,8% contro una media europea del 29%. Da un lato un’economia mondiale che ricomincia a girare, con una crescita media del Pil globale che nel 2010 è stata del +5%, dall’altro una totale sfiducia degli Italiani nella capacità dell’Italia di agganciare questa ripresa e, soprattutto, di tradurla in nuova occupazione e crescita diffusa.
Come mai? Qualcuno potrà pensare che gli italiani sono male informati, o incapaci di vedere quando le cose vanno bene perché di natura scettica, oppure semplicemente che sono pigri. Ma non è così. Gli italiani, come tutti gli altri, sanno leggere certi segnali e adeguare le proprie scelte di conseguenza. I segnali che influenzano i comportamenti dei cittadini in questi casi sono essenzialmente due: quelli provenienti dal mercato del lavoro più vicino a loro e quelli provenienti dalla politica. I primi hanno mostrato chiaramente un peggioramento non tanto e non solo della quantità del lavoro (nel biennio 2009-2010 si sono persi mezzo milione di posti), ma anche e soprattutto la sua qualità. I secondi hanno visto una politica economica, sociale e fiscale che in questi anni ha fatto pochissimo non solo per stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, ma anche per rendere il lavoro e la sua ricerca una scelta conveniente. Come ci insegnano i premi Nobel Pissarides e Mortensen (anche se non è necessario un premio Nobel per capirlo) cercare lavoro ha dei costi, fisici e psicologici. E’ normale che una persona deciderà di sostenere questi costi e questa fatica se pensa che ne valga la pena. Se invece i segnali indicano che questa convenienza è scarsa, smettere di cercare può diventare, per alcune persone, una scelta plausibile.
Anche se il dato sulla disoccupazione totale in Italia non è peggiorato, altri indicatori non sono altrettanto incoraggianti. Nel 2010, come ci dice il rapporto Istat, il calo più grosso dei posti di lavoro si è avuto tra le occupazioni cosiddette «standard», ovvero a tempo pieno e indeterminato. Quasi trecentomila posti di lavoro «buono» andati in fumo. Circa due terzi di questi posti riguardavano giovani. Al contrario, l’occupazione che si è creata nel 2010 è per lo più part-time, con contratti a tempo determinato e in fasce occupazionali scarsamente qualificate, soprattutto per le donne. Perché dunque dovrebbe stupire se così tante persone, e, guardacaso, soprattutto i giovani e le donne decidono di stare a casa e smettere di cercare? Giovani e donne sono proprio le fasce di lavoratori che in Italia hanno i lavori «peggiori», con i salari più bassi e con nessuna assistenza in termini di servizi di supporto o ammortizzatori sociali che rendano la ricerca del lavoro più semplice, meno onerosa e più conveniente. Per non parlare del fisco. Oggi centinaia di migliaia di persone sono costrette ad aprire partite Iva per lavorare con enti e aziende che non sono più disponibili ad assumerli come dipendenti, sopportando oneri e tassazioni che, persino nei cosiddetti «regimi agevolati», hanno ormai livelli molto elevati. Anche lavorare costa. E nessuna politica degli ultimi anni ha contribuito a renderlo più conveniente. Le uniche attività che fiscalmente sono state rese più convenienti sono l’acquisto e la locazione di immobili, con l’abolizione dell’Ici e l’introduzione dell’aliquota fissa al 20% per i redditi da affitti. Misure di per sé non sbagliate, ma che in mancanza di una riforma della fiscalità sul lavoro, e in un Paese in cui il la propensione al possesso di case è tra le più alte del mondo, creano non poche distorsioni nell’allocazione delle risorse e negli incentivi a lavorare. E quindi, al grido d’allarme dell’Istat che denuncia come milioni di italiani non cerchino più lavoro, molti potrebbero rispondere: e perché dovremmo? Rassegnati sì, fessi no. La vera sfida del nostro Paese oggi è quindi duplice: far recuperare dinamismo al mercato del lavoro in modo da generare più opportunità e iniettare un po’ di fiducia, ma anche rendere il lavoro una scelta più conveniente e stimolante per milioni di persone che sono stanche di girare a vuoto.
La Stampa 24.05.11