Se il «Rapporto annuale» dell’Istat è come il biblico libro delle Lamentazioni, il capitolo dedicato ai giovani è particolarmente drammatico. Dopo il dossier consegnato dal Censis alla Camera dei deputati, la settimana scorsa, anche l’Istituto di statistica affida all’opinione pubblica un quadro altrettanto sconfortante sugli italiani tra i 18 e i 29 anni: disoccupati, precari, scoraggiati, senza un futuro a breve, transitano con sempre maggiore frequenza nella categoria dei neet (not in education, employment or training), cioè di quelli che non ne possono più di cercare, bussare, aspettare, e neppure di sperare, per cui abbandonano tutto.
Si tratta – spiega l’Istat – di due milioni e centomila ragazzi, ben 134 mila in più rispetto all’anno precedente e pari a quasi un quarto (22,1%) di tutti gli under 30, una percentuale doppia rispetto alla media europea.
Se era noto che la disoccupazione giovanile aveva sfiorato il 29% a marzo di quest’anno (28,6% per l’esattezza), la novità di oggi è che neppure la scuola – da sempre vissuta come ascensore sociale – è più in grado di garantire un futuro ai ragazzi d’Italia. Resta vero il principio «più scuola uguale più lavoro», ma se nel 2009 era occupato il 38,8% dei giovani che aveva la licenza media, oggi questa percentuale è scesa al 36%. Se i diplomati trovavano un posto nel 45,6% dei casi, oggi lo trovano al 43,9%. E anche per i laureati si sono ridotte le prospettive: da 50,6% di chance a 48,5%. Il tutto in un anno drammatico e di pesante recessione.
«Per ogni 100 giovani occupati standard nel primo trimestre 2009 e non più occupati a distanza di un anno – dice il Rapporto -, circa 50 sono transitati nella disoccupazione (erano 40 nel 2008) e 34 nella “zona grigia” dell’attesa (erano 30 nel 2008). La restante parte è divenuta inattiva, cioè non cerca lavoro e non è disponibile a lavorare». A tutto questo va aggiunto che «per i giovani si è ridotta la probabilità di passare da un lavoro atipico a uno standard: ogni 100 giovani con contratto atipico nel primo trimestre 2009, solo 16 sono occupati stabilmente dopo un anno (10 in meno dell’anno precedente)».
Si allarga, dunque, a dismisura la fascia della precarietà strisciante che alimenta la crescita dei neet: donne del Sud, in gran parte, sfiduciate e deluse da tutto (a cominciare dalla scuola), che transitano dalla casa dei propri genitori a quella di mariti, fidanzati o partner. Tant’è che per il 56% di loro si apre una prospettiva da casalinghe madri mogli, mentre per l’87% dei loro coetanei maschi questa condizione di apatia sociale si vive all’interno della famiglia di origine. In attesa di meglio, se mai ci sarà.
«Se in questo quadro non c’è stata l’esplosione sociale dello scontento spiega il sociologo Franco Ferrarotti lo si deve alla famiglia, che si è fatta carico di questa emergenza». Tuttavia – secondo la psicologa Paola Vinciguerra, «questo non salverà queste persone giovani e così frustrate da una deriva di depressione che sempre si accompagna alla povertà e all’emarginazione».
Due terzi dei neet, rileva l’Istat, provengono da famiglie di modesta estrazione sociale e culturale. Ma il fenomeno sta facendo capolino anche nel ricco Nord-Est, specie tra i maschi diplomati, e anche tra gli stranieri immigrati. Anche questi ultimi, infatti, sono a corto di lavoro, per precario che sia, tant’è che l’Istat ne ha rilevato 310 mila in condizioni di sfiduciata attesa.
Parallelo e concomitante al fenomeno neet c’è quello dell’abbandono prematuro degli studi: «Nel 2010 – dice l’Istat – la percentuale di chi ha lasciato gli studi senza conseguire un diploma di scuola superiore si è attestata al 18,8%, ben lontano dalla soglia del 10% indicata nella Strategia Europa 2020, e a fronte di una media europea del 14,4%».
La Stampa 24.05.11