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"Sgarbi sconfitto dal suo pandemonio", di Walter Siti

Vittorio Sgarbi è il peggior nemico di se stesso. Ha lavorato per sei mesi a una trasmissione attesa e ambiziosa, ha ottenuto un budget altissimo che gli ha permesso una bella e fastosa scenografia. A pochi giorni dalla messa in onda, la neo-direttrice della Rai gli ha vietato di incentrare la prima puntata sul tema di Dio, le resistenze della vedova di Battisti gli hanno impedito di usare il titolo che per un mese era stato pubblicizzato, «Il mio canto libero». Che cosa farebbe una persona ragionevole in simili condizioni? Rinvierebbe la messa in onda almeno di una settimana e cercherebbe di ristrutturare la trasmissione per trovare un nuovo baricentro. Ma era partita una polemica sui giornali a proposito di malversazioni al Comune di Salemi di cui è sindaco, qualcuno aveva invocato l’opportunità di abolire il programma; fibrillazioni che si sarebbero spente in pochi giorni e che lui poteva trascurare forte della buona coscienza. Invece si è sentito chiamato sotto le armi e ha deciso di andare in diretta nonostante tutto, fidando sull’idea sbagliata che la confusione potesse essere scambiata per improvvisazione geniale.

In assenza del teologo eretico che era stato annunciato, tutto il peso della religione è caduto sulle spalle del povero vescovo di Noto, che se l’è cavata citando un passo “scandaloso” del concilio di Toledo; da Dio si è scivolati al Padre, declinato in tutti i sensi; si è visto il figlio, Carlo Sgarbi, in un confronto forse troppo verboso, e il padre, Giuseppe Sgarbi, commovente e di poche parole. Si è letta una bella pagina di Antonio Delfini e si sono ascoltate le scuse postume di Sgarbi ad uno dei suoi padri spirituali, l’odiato-amato Federico Zeri. Altri nessi sono parsi azzardati e tirati per i capelli (Umberto Bindi “padre della musica”, lui che di paterno non aveva nulla?). Intanto la scaletta diventava carta straccia, mentre al di là delle telecamere gli autori e il direttore di studio avrebbero voluto morire. Ragazze che apparivano ai lati di Sgarbi con delle carte in mano e misteriosamente sparivano dopo lo stacco pubblicitario; molti che dovevano dire o fare delle cose e non le hanno né dette né fatte, sedie che dovevano esserci e non c’erano; dopo un imbarazzante scambio d’idee con Gavino Ledda (per via del padre padrone) palesemente convocato all’ultimo minuto, un misericordioso collaboratore è entrato in scena ad annunciare che lo spettacolo era finito, coro di bambini e tutti a casa.

E’ del tutto evidente che il genere letterario a cui l’oratoria di Sgarbi può aspirare non è il romanzo, e nemmeno il racconto: è piuttosto lo zibaldone, il coacervo, la satira menippea. La sua presenza ingombrante ha bisogno di sfoghi e digressioni autobiografiche; ma se savianeggia e comincia a parlare di macchina del fango fa un mestiere che non è il suo. Il pezzo di Carlo Vulpio contro l’eolico, giusto o sbagliato che fosse sul piano dei contenuti, narrativamente funzionava proprio perché non è stato Sgarbi a recitarlo. Se mai RaiUno avrà il coraggio di riprendere l’esperimento, magari in seconda serata, speriamo che all’informe si sostituisca la forma, perché anche il pandemonium dev’essere forma. Non basta citare Longanesi, Ceronetti, Bernhard, e Pasolini in aggiunta, per costruire una credibile alternativa di destra. (A proposito: quand’è che da entrambe le parti si smetterà di considerare i testimoni del passato come icone con venerazione incorporata e si cercherà piuttosto di intenderli, magari strapazzandoli ma considerandoli finalmente nostri contemporanei?).

da www.lastampa.it