Il carisma è un dono di Dio, come dice l’etimologia greca della parola. Come tale, può essere concesso senza un perché. Ma pure senza un perché può essere ritirato. E quando non c’è più, si interrompe improvvisamente quello straordinario dialogo diretto con i suoi adepti che trasforma un capo politico in un leader, appunto, carismatico. Sembra questo il caso delle due uniche personalità della politica italiana che abbiano, o abbiano avuto, questo dono.
Si tratta dei fondatori dei due partiti personali della seconda Repubblica, Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Quello che colpisce, tra i vari significati del voto di domenica e lunedì, è proprio la mancata risposta, per la prima volta, del popolo, del loro popolo all’appello dei due leader del centrodestra. Come se quella eccezionale, quasi rabdomantica capacità di intuire, rappresentare ed esaudire i desideri degli elettori-fan si fosse misteriosamente appannata. Un segnale grave, proprio perché a un capo politico è concesso di commettere errori, ma un leader carismatico non può perdere la vera legittimazione del suo potere: la garanzia di un contatto permanente con i sentimenti dei suoi fedeli.
Il presidente del Consiglio ha tentato a Milano di replicare la mossa già tante volte riuscita in altre simili circostanze, quella di far passare attraverso il lavacro della sua persona, questa volta il malessere degli elettori milanesi per l’operato della Moratti e di riscattare il disagio per i risultati del suo governo con l’appello alla solidarietà contro i magistrati. Ma l’operazione mediatico-politica è incappata nell’improvvisa sordità del corpo moderato cittadino. Un atteggiamento sorprendente, anche perché il rifiuto all’appello berlusconiano non si è tradotto in un rafforzamento della Lega, né del «Terzo polo» e neppure si è rifugiato nel tradizionale serbatoio della protesta: l’astensione dal voto. Un «mistero di Milano» che sarà probabilmente svelato da un’accurata analisi dei flussi elettorali in quella città e che potrà risultare, comunque, meno indecifrabile solo tra quindici giorni, al ballottaggio.
Quella bacchetta magica in grado di individuare subito la vena sotterranea degli umori della propria gente sembra essersi spezzata anche nelle mani dell’altro leader carismatico del centrodestra, Umberto Bossi. Il caso del leader della Lega è, forse, ancor più interessante di quello del presidente del Consiglio. Innanzi tutto perché è più sorprendente: mentre le difficoltà per Berlusconi erano già state segnalate dai sondaggi, si pensava che l’alleato di governo potesse ereditare una cospicua parte della delusione moderata. C’è, poi, la sensazione che la perdita di sintonia tra le scelte di Bossi e i sentimenti del popolo leghista stia durando da oltre un anno, con prove ripetute ed evidenti, anche se finora mascherate dalla sua «dittatura» nelle espressioni ufficiali dei suoi colonnelli.
Il riassunto di questa progressiva incomunicabilità tra il fondatore del partito e i suoi sostenitori è facile ed eloquente. Cominciamo dal motivo unificante e principale del desiderio collettivo nella base leghista, l’abbassamento delle imposte. Su questo argomento si è diffuso il timore che il modo con il quale si sta impiantando il federalismo fiscale, almeno in un primo momento, aumenti la tassazione invece di diminuirla. Bisogna segnalare, inoltre, il dilagante malumore per l’obbligo di difendere Berlusconi dai suoi guai giudiziari, in un campo, quello della morale pubblica e privata, che non trova, nelle sensibilità sostanzialmente conservatrici di quegli elettori, troppa indulgenza.
I veri bocconi amari, però, sono venuti da alcune scelte di Berlusconi, avallate da Bossi. Il più indigeribile è il passaggio del ministero dell’Agricoltura, indispensabile tutore degli allevatori padani, prima dal leghista Zaia al berlusconiano Galan e, poi, addirittura a un siciliano, peraltro molto discusso, come Saverio Romano. Con il contorno di scelte altrettanto meridionalistiche tra i sottosegretari, per recuperare l’appoggio dei deputati cosiddetti «responsabili», stretti intorno al loro leader mediatico e simbolico, Salvatore Scilipoti.
Decisioni concrete che si sono affiancate a un altro clamoroso cortocircuito tra Bossi e suoi elettori, quello avvenuto in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità italiana. I dirigenti della Lega hanno cercato di boicottare e, comunque, di sminuire il valore della festa, non intuendo che il clima generale del Paese, compreso quello della maggioranza degli abitanti anche del Nord, non era affatto disposto a seguirli in una posizione che è apparsa meschina, provinciale, venata da un antipatriottismo ingiustificato. Il coro di fischi che puntualmente si è levato di fronte a tale atteggiamento si è ritrovato nei risultati elettorali. Sintomatico quello di Novara, patria del tandem Cota-Giordano che guida la Regione in Piemonte. Mauro Franzinelli, fedelissimo della coppia più forte nella Lega del Nord Ovest, non è stato eletto al primo turno in una città dove il precedente sindaco di quel partito aveva superato, cinque anni fa, il 60% dei suffragi. I consensi della lista di Bossi, inoltre, hanno seguito lo stesso destino, calando dal 22 al 19 per cento.
Non bisogna, quando si parla di carisma, fare mai previsioni per il futuro. Quel «dono di Dio» è tanto forte, quanto labile. E’ possibile che Berlusconi e Bossi, come l’hanno improvvisamente perso, così improvvisamente lo ritrovino. Ma devono fare in fretta, perché il canale di comunicazione tra loro e il loro popolo potrebbe non riaprirsi più.
La Stampa 18.05.11
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“Il Senatur: se perdiamo si apre la crisi”, di CLAUDIO TITO
«Se la Moratti perde anche il ballottaggio, per noi è difficile rimanere lì». Questa volta Umberto Bossi pesa ogni singola parola. Non è più il tempo della campagna elettorale. Ma quello di capire quale strada debba imboccare la Lega. Il voto di Milano – tradizionalmente vittorioso per il centrodestra – si è improvvisamente trasformato nel momento delle scelte. «La situazione – ripete il Senatur ai big del Carroccio – non è facile. Noi ci impegneremo fino al 30 maggio, ma la vedo complicata».
La tensione è altissima. Il summit convocato nella sede di Via Bellerio assume contorni drammatici. Il leader lumbard invoca la calma: l´ipotesi di una rottura con il premier non può essere presa alla leggera. Ma l´incubo di tornare nel limbo della marginalità si materializza come uno spettro. Il Senatur fuma il sigaro e sfoglia i dati di tutte le elezioni locali. Davanti a lui ci sono Calderoli e Maroni, Cota e Giorgetti, Reguzzoni e Renzo Bossi. La sconfitta milanese è qualcosa di più di un semplice passo indietro. Può mettere in crisi il sistema di potere che negli ultimi vent´anni ha governato il cuore industriale del Paese. «Sarebbe la fine di un ciclo». E proprio per questo rischia di determinare scelte radicali in quello che Berlusconi ha sempre definito «l´alleato più fedele». Perché a quel punto «la crisi sarebbe alle porte».
Una svolta che Bossi non vorrebbe compiere ma teme possa diventare una opzione obbligatoria: «Possiamo ancora rimanere lì?». Del resto, il risultato del centrodestra è inaspettato. Lo ha spiazzato. Il suo “fiuto” questa volta ha tradito. E ora l´analisi è impietosa. E sebbene ci sia stato un rimpallo di responsabilità tra i quadri leghisti sulle scelte delle candidature, le accuse del Senatur sono rivolte in primo luogo al Pdl e al Cavaliere. «È crollato il Popolo delle libertà e ci ha trascinato verso il basso», è la sua analisi. Quasi per sollevare l´umore della sua truppa, cita alcuni esempi: a Busto Arsizio lo share della Lega si assesta al 27,9% e cinque anni fa era al 13. A Varese viene superato il 24% e nel 2006 si toccava il 20%. A Gallarate, dove il candidato lumbard non va nemmeno il ballottaggio, il dato della lista è però del 22 per cento contro il 10 delle precedenti comunali. E persino il 9% a Milano viene letto in controluce: il Carroccio perde quasi 6 punti rispetto alle regionali, ma ne guadagna un paio nel confronto con le comunali. «Il problema – ripete allora ai suoi fedelissimi – non è la nostra tenuta. Noi, dopo la vicenda immigrati, potevamo essere travolti. Ma non è stato così. Il problema è il Pdl». È l´asse tra la Lega e il Pdl, l´abbraccio tra Bossi e Berlusconi.
L´interrogativo del “capo” allora diventa un rovello nella seduta-fiume convocata nel bunker milanese. Tutti si rendono conto che questo sta diventando il “momento della verità”. «Se si perde a Milano – è la sua analisi – Berlusconi non avrà solo contro i magistrati, ma in Parlamento verranno meno i Responsabili, il Quirinale non potrà che fare il suo dovere e via dicendo. Per risollevarsi dovrebbe fare la riforma fiscale, quella costituzionale, rilanciare l´economia. Ma non sarebbe in grado di farlo». E per rendere tutto ancora più drammatico cita il piano di Tremonti presentato all´Ue che prevede tagli per 8 miliardi quest´anno, il prossimo e nel 2013. Non solo. «Tutti gli chiederanno di dimettersi e lui non lo farà. In quella situazione rischiamo di fare la fine degli ascari che difendono il forte e tra due anni torniamo al 4 per cento». Una prospettiva che terrorizza tutto lo stato maggiore padano.
Bossi chiede allora di lavorare «ventre a terra» per cercare di ribaltare la situazione a favore della Moratti. Per evitare così la scelta più traumatica. In caso di successo, allora, «potremo organizzare il rilancio e le riforme. Solo così ha senso restare. Altrimenti per noi è difficile reggere». Anche perché tutti i big leghisti sanno che la base è una pentola in ebollizione. Rischia di scoperchiarsi con un boato. Ma recuperare a Milano è «complicato». Tra i potentati meneghini – anche Berlusconi – già circola un sondaggio che vede volare Pisapia. «Silvio – dice il Senatur ai suoi – deve tirare fuori qualcosa dal cilindro. Non può dire ora che è un voto locale».
Eppure c´è un altro aspetto che fa infuriare il Carroccio. La lotta intestina nel Pdl. Il loro dito indice è puntato contro il Governatore Formigoni e contro Cl, accusati di aver votato contro Berlusconi. «Quello – è il sospetto di Bossi riferendosi al presidente lombardo – pensa di poter approfittare della crisi interna al suo partito». Accuse che un po´ tutti confermano e che nello stesso tempo fanno salire ulteriormente la tensione e la preoccupazione per un futuro incerto. La lista degli addebiti verso il Pdl si allunga: ognuno dei presenti al vertice riferisce un episodio che conferma l´analisi del Senatur. E a questo punto la memoria corre a sei mesi fa. Quando, dopo lo strappo di Fini, si aprì la prima riflessione nella maggioranza. «Avevamo detto a Silvio che doveva preparare l´alternativa a se stesso. Doveva indicare un nome. E invece ha scommesso su stesso pensando al 2013. Ma così o vince tutto o perde tutto».
Dopo il 30 maggio, dunque, l´equilibrio della politica potrebbe d´un tratto cambiare. La Lega sa bene che a giugno ogni crisi di governo non può portare alle elezioni anticipate. «Ma nessuno – avverte il leader lumbard – può dire quale sarà la soluzione. Ci chiederanno l´allargamento a Casini e ci parleranno di un governo istituzionale. Noi aspetteremo e vedremo».
La Repubblica 18.05.11