Stieg Larsson li chiamerebbe “Uomini che rispettano le donne”. Sono i promotori di un appello contro la violenza lanciato nella tragica estate 2006 di Hina, la giovane pakistana uccisa dal padre a Brescia, e rimodulato sulla cronaca recente. Tra le firme Goffredo Fofi e Gad Lerner, Giacomo Marramao e Nanni Balestrini, Piero Fassino e Franco Giordano. La segretaria generale della Cgil Tessile Valeria Fedeli ha chiesto al sindacato nazionale di sottoscriverlo. Il sindaco e la giunta di Sesto San Giovanni lo hanno fatto proprio e proposto a tutti i cittadini maschili.
Dietro c’è l’associazione Maschile Plurale, nata un anno fa per «reinventare l’identità maschile e la mascolinità» sforzandosi di avvicinare Marte a Venere. Una mosca bianca, nel mare magnum delle organizzazioni anti-violenza, che senza dubbio piacerebbe allo scrittore svedese, autore del best seller «Uomini che odiano le donne».
Singoli e gruppi al maschile che nel tempo hanno costruito una rete a livello locale, tra amicizia e idee comuni, e poi hanno giudicato i tempi maturi per emergere con un «progetto sociale». Significativo il testo: è «giunto il momento di una presa di parola pubblica e assunzione di responsabilità da parte maschile». Di qui sedute di autocoscienza collettive, iniziative politiche, presentazioni culturali, un appuntamento nazionale a Pinerolo il 21-22 marzo.
Non sono numeri enormi: un centinaio gli iscritti, un migliaio le firme, molti più simpatizzanti e internauti. Racconta Alberto, da Genova: «L’appello ci ha fatto vedere una realtà più grande di quanto immaginassimo di uomini su questa posizione». Ora hanno uno strumento per condividerla. Conferma Gianguido Palumbo, uno dei fondatori: «C’è stato un tam tam. Il sollievo di poter confrontare dubbi, riflessioni, modi di vita». Capita, come racconta Alberto, di uomini che «usufruendo di questa piccola comunità siano riusciti a incanalare una tendenza alla violenza che sentivano dentro di sé, senza venire condannati». Ma se è ben accetta la curiosità (che soprattutto è femminile), Palumbo mette in guardia dal «voyeurismo»: «Una trasmissione televisiva ci ha chiesto di filmare un incontro di autocoscienza maschile. Li abbiamo mandati al diavolo».
Palumbo fornisce un identikit degli aderenti. Età: dai 40 ai 60, maggioranza over 50. «Siamo non dico reduci ma militanti di una sensibilità sociale che ha fatto gli Anni ‘70». Generazioni toccate dal femminismo: non pervenuti ragazzi di oggi. Professioni varie: insegnanti, professionisti, impiegati, pensionati, qualche operaio. Credenti e non, etero e omosessuali. Pochi militanti o iscritti a partiti, tutti di sinistra. Dal Pd agli attuali extraparlamentari: «Nessuno di destra e c’è un motivo. La politica è anzitutto cultura. Il rapporto con il mondo attraverso l’identità sessuale fa parte integrante di te e conduce a una certa militanza. Un associato di An mi farebbe piacere, ma sarebbe in crisi con la sua tradizione».
Omogeneità territoriale: da Nord a Sud. A Torino c’è «Il cerchio degli uomini», con attività teatrali e «lavoro sul corpo». A Pinerolo «Uomini in cammino», comunità di cattolici di base gestita da Beppe Pavan, ex prete poi sposatosi, ex operaio. A Roma e Bologna le presenze più strutturate. A Ragusa è nato il nucleo «Non più sole».
Orazio Leggiero fa parte di «Uomini in gioco»: da 7 anni si incontrano tra Bari e Monopoli, a casa dell’uno o dell’altro. «Ci vediamo 4 volte al mese – racconta – E scegliamo il tema da affrontare a livello emozionale, perché è lì che noi siamo carenti. Parliamo del rapporto con i genitori, i figli, la violenza in generale». Perché un gruppo maschile si incontra per dibattere un problema non suo? «Non vogliamo scimmiottare le femministe, ma si deve partire dal proprio vissuto di genere». Gli amici vi prendono per matti o vi invidiano? «Avvertiamo un certo disagio, interesse inconfessato. Ma spesso si uniscono a noi. C’è sofferenza diffusa».
Per un fenomeno in riemersione, che sia «quantitativa o culturale»: «Ormai – si legge nell’appello – opinione pubblica e senso comune non tollerano più la prevaricazione maschile». Tantomeno se l’”allarme straniero” serve a rimuovere gli stessi comportamenti «di noi maschi occidentali». Massimo Greco, caposala al Policlinico di Tor Vergata, ha gestito un corso di formazione per infermieri che si relazionino con vittime di abusi. 60 iscritti. Il punto: «Le ricerche mostrano che gli operatori sanitari a volte non capiscono il problema della donna, o scattano stereotipi del tipo “guarda come era vestita”». Si impara a individuare una vittima che ha paura di denunciare: lesioni da difesa, come il livido della presa di mani o tagli sulle braccia, i movimenti, il silenzio. Visti dalle ambulanze, i maltrattamenti crescono? «Cresce il coraggio di andare in ospedale. Tante donne non sanno che anche nel matrimonio può esserci stupro che richiede il medico». L’interrogativo finale è perché uomini rispettosi delle donne sentano il bisogno di impegnarsi in prima linea: «Noi non abbiamo mai alzato le mani – dice Leggiero – Ma questo non ci assolve del tutto». È il senso di colpa maschile? «Direi introiettato nel profondo. C’è una colpa collettiva di cui dobbiamo farci in parte carico».
L’Unita, 3 Febbraio 2009
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