Che cosa sanno i ragazzi di oggi del terrorismo che insanguinò e inquinò l’Italia, fece regredire il Paese, cancellò i movimenti giovanili, trasformò per lunghi anni in un incubo la vita di milioni di cittadini? Quelle livide mattine. Cominciava la giornata con il Giornale Radio delle 8 che faceva entrare nelle case le notizie dei primi morti ammazzati. Lo Stato imperialista delle multinazionali, ossessivo fantasma delle Brigate rosse, era impersonato da carabinieri, guardie carcerarie, agenti di polizia, sorveglianti di fabbrica, trovati accartocciati nelle loro macchine all’alba, colpiti dalle mitragliette, dalle pistole, dai kalashnikov. Era impersonato anche da magistrati, giornalisti, dirigenti industriali, i migliori, quelli, diversi dagli assassini, che si battevano per la democrazia, per lo Stato di diritto, per una vita migliore. Giovanni Bianconi, giornalista del «Corriere della Sera» , ha scritto un libro, Il brigatista e l’operaio. L’omicidio di Guido Rossa. Storia di vittime e colpevoli (Einaudi Stile libero) che potrebbe aiutare anche chi nulla sa e fargli capire come fu arduo superare quell’infame stagione della nostra storia nazionale inzuppata di sangue innocente che pesa ancora oggi. La vicenda di Guido Rossa, l’operaio metalmeccanico dell’Italsider di Cornigliano, Genova, delegato della Cgil nel Consiglio di fabbrica, iscritto al Pci, e quella del suo assassino, Vincenzo Guagliardo, si incastrano nel dolore di Sabina Rossa, l’allora sedicenne figlia dell’operaio. La mattina del 24 gennaio 1979, la ragazza andò a scuola di corsa e non si accorse della Fiat 850 color rosso bordeaux parcheggiata sotto casa, in via Ischia, a Genova, coi vetri rotti, i bossoli a terra e, dentro l’abitacolo, suo padre, il capo reclinato sul petto e appoggiato al volante, le gambe stese sul sedile accanto. «Una tragedia operaia» avrebbe potuto avere per titolo il libro. Non era mai accaduto neppure in quegli anni infuocati: operai che uccidono operai. Il serio, documentato, angosciante saggio di Bianconi è anche un tentativo di scavare nella psicologia— la rottura con il mondo degli affetti, la solitudine — e nella cultura politica dei terroristi. Va al di là dell’appassionato bisogno di verità di una figlia che in tutti questi anni si è prodigata per conoscere nel profondo le ragioni di quella morte e ha voluto saperlo dall’assassino di suo padre. È anche l’itinerario non pacificato che ha portato Guagliardo a comprendere com’era sbagliata, più che la linea politica, la scelta di fondo del terrorismo legato alla violenza. Guido Rossa è nato nel 1934 nel Bellunese, in una famiglia operaia. Comincia a lavorare a 14 anni, in una fabbrichetta di cuscinetti a sfere, poi a Torino, alla Fiat, come fresatore. Nel 1961 si trasferisce a Genova, la città della moglie, dove viene assunto all’Italsider. È appassionato di montagna, scalatore non dilettantesco, legge, studia, scopre Marcuse, la militanza politica. Il sindacato, l’adesione al Pci sono per lui scelte naturali. È una persona seria, capace nel lavoro, non è un fanatico e neppure un estremista. L’anno dopo viene eletto nel Consiglio di fabbrica per la Fiom-Cgil. La sua vita è senza sbalzi, tranquilla. L’itinerario di Guagliardo è all’opposto, inquieto. È nato in Tunisia, nel 1948, in una famiglia di emigranti siciliani. Suo padre fa il fabbro e il meccanico agricolo. Viene a mancare il lavoro e la famiglia, nel 1962, si trasferisce in Italia. In quegli anni del boom Torino è il miraggio, il padre trova subito lavoro alle catene di montaggio della Fiat, il figlio si iscrive all’istituto tecnico per geometri. La politica lo attrae subito. A disagio nella Federazione giovanile comunista, è attratto dai «Quaderni Rossi» , la rivista di Raniero Panzieri. Il Pci comincia presto a essere il nemico. Al contrario di Rossa, Guagliardo è un estremista, fa alla svelta a prendere contatto con gli emissari brigatisti torinesi. L’album di famiglia. Conosce Renato Curcio, è partecipe nel far nascere il primo nucleo delle Br a Torino. Che cosa sta succedendo nelle fabbriche? Le Br hanno dei fiancheggiatori, vicini alle loro idee, preziosi nel diffondere nascostamente messaggi, volantini. I brigatisti, scrive Bianconi, «si erano sentiti protetti da una sorta di opacità che consentiva di muoversi all’interno dei reparti senza subire conseguenze, potendo contare su coperture e solidarietà» . Il Pci, in nome della democrazia, si sta dissanguando nella lotta contro il terrorismo. Ha una dura parola d’ordine: chi sa, lavoratori o cittadini qualunque, denunci i violenti. Il delegato sindacale Guido Rossa è attento, si sposta nei reparti, coglie gli umori della fabbrica. Ha sospetti di complicità con i terroristi. Le Br, fuori, enfatizzano il sostegno operaio, ma i segni di pericolose confluenze esistono. Un impiegato, ex operaio, Francesco Berardi, gira per lo stabilimento in bicicletta per consegnare bolle di carico, Rossa lo vede spesso accanto alle macchinette distributrici di caffè dove vengono lasciati i documenti delle Br. Il 25 ottobre 1978 alcuni operai gli mostrano l’ultima Risoluzione strategica trovata vicino alla solita macchinetta. L’impiegato si muove senza sosta, Rossa lo incontra anche in quell’occasione. Ha un sospetto rigonfiamento sotto la giacca. Va a segnalare quel che è successo alla Vigilanza dell’Italsider e quando esce dall’ufficio trova su una finestra vicina un’altra copia della Risoluzione strategica che poco prima non c’era. Nel Consiglio di fabbrica si apre un dibattito. Nell’armadietto di Berardi vengono sequestrati documenti brigatisti, numeri di targhe d’auto, volantini di rivendicazione di delitti. Rossa decide senza esitazione di far denuncia, due delegati che sono con lui rifiutano di aggiungere la loro firma. Resta solo. Il magistrato ordina l’arresto di Berardi. Sarà condannato per direttissima a 4 anni e sei mesi di carcere. Per le Br è avvenuto un fatto grave. Che fare? L’idea iniziale è di mettere Rossa alla gogna, incatenato ai cancelli della fabbrica con un cartello che lo esponga al pubblico ludibrio come spia. Ma l’operazione è irrealizzabile. Gambizzazione, allora. Affidata a Vincenzo Guagliardo e a Riccardo Dura. L’ «inchiesta» è rapida. L’azione non va in porto come dovrebbe. Guagliardo spara tre colpi di pistola, colpisce Rossa alla gamba e al ginocchio. L’operazione dovrebbe essere compiuta. Dura, invece, che non avrebbe dovuto sparare, colpisce, con altre tre pallottole, Guido Rossa al cuore. L’operaio berlingueriano muore subito. Decine di migliaia di operai in piazza a Genova con il presidente Pertini gridano contro la violenza delle Br. Il libro di Bianconi — un tormento che fa ancora male — potrebbe finire qui, allarga invece il suo sguardo su tutto il terrorismo. Protagonista è sempre Guagliardo (quattro ergastoli) e quanto è accaduto in quegli anni. Sullo sfondo il sequestro Moro, il sequestro Dozier, la colonna veneta di cui è il capo, il massacro dei brigatisti in via Fracchia, a Genova (evitabile), l’ossessività dei delitti che punteggiano la vita quotidiana, il viaggio per mare, con un monoalbero, nel Libano a comprar armi dall’Olp, la distribuzione di mitragliette, mitra, fucili, missili alle diverse colonne con metodo ragionieresco. Guagliardo passa in carcere trent’anni, ha il tempo per pensarci su. Dal libro di Bianconi, che ha avuto con lui lunghe conversazioni, si capisce bene come i terroristi, chiusi nei loro covi, conoscano poco la società italiana e conoscano poco la natura umana con le sue debolezze. La militanza brigatista di Guagliardo si conclude nel 1983. Non è un «pentito» , non è un dissociato. Per il suo silenzio è considerato erroneamente un irriducibile. Quando è entrato nelle Br ha accettato «il male necessario della violenza» . Poi ha capito le ragioni della sconfitta, il fallimento, la moltiplicazione dei «pentiti» . La ristrutturazione industriale e la scomparsa dell’operaio massa hanno dato il colpo di grazia al brigatismo. In prigione non vuole mercante
ggiare i benefici di legge con la giustizia, non vuole chiedere perdono ai figli e ai parenti delle vittime per ottenere vantaggi. Per riguardo, non per orgogliosa tracotanza. Con sua moglie, Nadia Ponti, anche lei ergastolana delle Br, lavora ora in una cooperativa, «Il Bivacco» , fa libri digitali per i ciechi. Solo nello scorso aprile ha ottenuto dal Tribunale di sorveglianza di Roma la libertà condizionale: una lunga lotta per riuscire ad averla in nome della Costituzione, si potrebbe dire. Il merito maggiore è di Sabina Rossa, ora deputata del Pd. Con il suo coraggio, il suo spirito di tolleranza e di libertà.
Il Corriere della Sera 16.05.11