Guardo con mistero e sconcerto a guerre e mafie all’interno delle facoltà. E con meraviglia alle grandi capacità che spesso si producono negli atenei. Per ovvie ragioni “di classe” non ho fatto a suo tempo l’università, un tipo di scuola riservato, allora, alle classi abbienti o alla piccola borghesia emergente. Il boom non era ancora arrivato e a Barbiana non avevano ancora scritto la “lettera a una professoressa”. Ho conosciuto, è ovvio, centinaia, forse migliaia di laureati, e anche di professori universitari, di assistenti universitari, di ricercatori universitari, sentendo a lungo (e ancora oggi) un forte sentimento di inferiorità verso coloro che l’università l’avevano fatta o la facevano. Quello di cui più soffrivo era di “non avere un metodo” nell’affrontare i miei studi e le mie letture, le mie ambizioni di inchiestatore o di critico o, un tempo, il lavoro con i bambini al di fuori delle istituzioni regolamentari. La messa in atto dei miei interessi e delle mie passioni avrebbe richiesto un’adeguata preparazione scientifica che assolutamente non avevo e non ho mai avuto. E di questo soffrivo, anche se un amico che stava nell’università mi ripeteva che, sì,un metodo l’università riusciva a darlo, ma solo quello, nient’altro, non riusciva cioè a dare la capacità di conoscere davvero la realtà, di saper ragionare sulla realtà, di individuare i modi per poter modificare positivamente la realtà. Insomma, da bravo autodidatta, in buona parte per scelta o per l’affanno delle tante iniziative in cui mi sono continuamente perso e trovato, ho oscillato nel tempo tra il rimpianto di non aver potuto fare degli studi regolari e la pretesa di sapere su molte cose più di tanti professori e professoroni. Raggiunta una certa età, riesco, credo, a essere più obiettivo nel giudicare i pregi e limiti altrui, e soprattutto i moltissimi limiti e i pochi vantaggi che derivano dalla mera esperienza. Da sola l’esperienza non basta anche se non si va lontano rinunciando all’esperienza e, per esser più precisi, a esperienze abbastanza radicali nella scelta del proprio posto nel mondo, del modo di assolvere ai propri doveri nei confronti del mondo. Oggi, per esempio, di fronte alla mancanza di sale della cultura italiana di questo sciagurato periodo della nostra storia – che, potendo fare dei paragoni, non esito a definire il più fiacco tra i molti della storia e cultura del nostro paese dagli anni di guerra in avanti – mi capita molto spesso di pensare all’università con una certa dose di solidarietà e di riconoscenza. Naturalmente, a una certa parte dell’università. Ma che esiste e resiste, nonostante i ministri (di sinistra come di destra), i baroni (di sinistra comedi destra), i parassiti (di sinistra come di destra), gli imbecilli (di sinistra come di destra) e nonostante la sua pessima organizzazione, la scarsità dei mezzi che lo stato le destina, e la necessità o l’obbligo per molti dei suoi membri migliori e soprattutto per i più giovani di fuggirsene altrove, per continuare a studiare e per veder riconosciute le loro capacità. Nonostante, perfino, l’anomia o la propensione al conformismo e all’accettazione di tutto e anche del peggio, prodotta da questo contesto nella gran maggioranza degli studenti. Sono davvero convinto che se ancora esiste in Italia un po’ d’intelligenza e di risposta ai bisogni di sapere (del passato del presente e del futuro nei molteplici aspetti dell’esperienza umana), e in generale del bisogno-dovere di “seguire virtù e conoscenza”, lo si deve a certe realtà minori, marginali, magari poco note e talora perfino in vario modo soffocate, che ancora l’università riesce a esprimere. Parlo di certe zone delle facoltà di storia, di sociologia, di scienza (le scienze più vicine al concreto quanto quelle più portate all’astratto) con più convinzione che di quelle di economia, così condizionate dal contesto e dal potere, o di letteratura, così poco impregnate di conoscenza di ciò che letteratura non è, e continuo a vedere nelle “scienze della formazione” e in quelle “della comunicazione” una delle trovate più negative di un sistema che mira al condizionamento delle nuove generazioni, che mira alla distrazione e “ricreazione” e non alla conoscenza del mondo e all’assunzione di responsabilità nei suoi confronti. Dell’università si può dire tutto il male che si vuole, ma io non sono in grado di farlo se non da molto distante, perché so troppo poco dei suoi misteri “politici” e delle sue “mafie” e niente dei suoi meccanismi di funzionamento, delle sue burocrazie e dei suoi schieramenti, delle leggi e delle “riforme” che la regolano, imposte dal regime berlusconiano ma talora anticipate dai governi della sinistra. Mi sembra più importante, oggi e proprio oggi, dirne quel che di positivo è possibile dirne, perché nonostante tutto ancora produce studiosi e studi di grande valore,mentre altri settori della società che avrebbero doveri istituzionali comparabili hanno rinunciato a farlo o lo fanno, per esempio il giornalismo e la chiesa, infinitamente di meno.
L’Unità 15.05.11