Le istituzioni locali principali del territorio di Roma e del Lazio sono al collasso. Mai così dal dopoguerra. La crisi ha tre aspetti: istituzionale, politico e sociale.
Sul piano istituzionale la Regione Lazio è intrappolata. Ogni risorsa del suo ultimo bilancio – e forse anche dei prossimi – è destinata a precipitare nel gorgo del debito sanitario e i grandi settori dello sviluppo regionale – in primo luogo la formazione e le infrastrutture – sono cancellate dalla programmazione finanziaria mentre si fa cronica l’insolvenza di cassa verso fornitori ed imprese.
L’amministrazione del Comune di Roma è sfasciata, travolta dalla crisi finanziaria e da un folle spoil system che ha disperso enormi capacità e competenze.
Sul piano politico la Polverini ed Alemanno sono figure deboli nell’opinione pubblica, nel rapporto con i loro partiti e col governo nazionale. Sul piano sociale, infine, la società romana ed ancor più quella laziale attraversano una crisi profonda che per la prima volta dopo decenni coinvolge strati ampi di ceto medio produttivo e burocratico-amministrativo oltre ai ceti popolari, che sempre pagano le crisi.
Purtroppo la crisi finanziaria degli enti locali e del governo non consente ormai una efficace risposta di tipo esclusivamente pubblico all’aumento delle domande e in giro cresce lo smarrimento.
Il Partito democratico non può traccheggiare in questo disastro e deve scuotere l’albero avanzando alcune proposte di riforma radicale del sistema.
In primo luogo credo che occorra lavorare per costruire un nuovo sistema di governance pubblicoprivato e privato sociale sviluppando l’esperienza del cosiddetto “modello romano” che provvide essenzialmente ad una “societarizzazione” delle vecchie municipalizzate e pervenendo ad un sistema liberalizzato di stampo europeo.
Nel sistema dei servizi pubblici infatti – trasporto, energia e rifiuti – alcune grandi aziende non sono più risanabili con il danaro pubblico. Una politica di liberalizzazioni è un discorso serio che non si può improvvisare in poche righe ma la direzione inevitabile.
Nel settore del welfare urbano – a Roma in particolare – occorre investire sulla responsabilità ed il protagonismo della società civile, dell’impresa sociale e cooperativa affiancandola al ruolo strettamente pubblico.
Nei paesi anglosassoni – in Gran Bretagna soprattutto – si parla di “Big Society” a fianco del “Big government”. A Roma parliamo di “sussidiarietà”.
In assenza di risorse finanziarie la leva per costruire un modello innovativo di welfare urbano ispirato a pratiche di sussidiarietà sta nell’uso del patrimonio immobiliare del Comune di Roma che è immenso e che può essere messo a disposizione di cooperative ed imprese sociali e giovanili per potenziare azioni di housing sociale, coltivazione biologica, manutenzione urbana, servizi di prossimità, assistenza sociale, formazione, cultura.
Nel settore del governo del territorio occorre finalmente varare una moderna legge urbanistica regionale che spazzi via l’attuale caos di norme e di leggi che si sovrappongono l’un l’altra e che favoriscono solo la granitica forza dei poteri illegali che non a caso si espandono sul territorio approfittando della farraginosità delle amministrazioni pubbliche.
Serve una legge di pochi articoli che dia norme chiare per regolare il ricorso alla contrattazione inevitabile con i privati, garantendo al pubblico quote significative delle rendita urbana che si genera nelle trasformazioni del territorio, che riservi così aree e suoli per realizzare edilizia popolare, servizi e infrastrutture e che assicuri stabili e continuative politiche di green economy.
In secondo luogo serve una riforma elettorale che spazzi via l’indegno mercato delle preferenze che sempre più condiziona la vita politica e la vita interna dei partiti, le scelte amministrative e la vita delle istituzioni e che ben lungi dal rappresentare una forma di democrazia e di scelta degli elettori va sempre più trasformandosi in una nuova forma di schiavitù e di sottomissione della libera scelta dei cittadini attraverso un voto di scambio che si produce in forme più o meno legali.
Occorre ricostruire un rapporto diretto tra elettori ed eletti basato sulla politica e non sui favori, riducendo l’ampiezza dei collegi elettorali, concentrando la scelta sulla persona sulla base di una alternativa o di più alternative politiche in un certo territorio e quindi introducendo collegi uninominali – con candidati selezionati da primarie – e contenendo la spinta al drenaggio delle risorse elettorali giunte ormai oltre ogni limite.
In terzo luogo va rilanciata in parlamento una battaglia per rifinanziare la legge 396/90 di Roma Capitale perché ormai si può dire con chiarezza e senza pudori che il federalismo fiscale si è tradotto per Roma in una fregatura perché Alemanno si è fatto scippare da Berlusconi e dalla Lega l’unico strumento concreto e certo di finanziamento aggiuntivo ai fondi ordinari in cambio di pochi compendi militari e demaniali a cui dovrà dare nuove destinazioni urbanistiche e che dovrà poi vendere prima di trasformarli in danari e senza le anticipazioni di cassa promesse.
Con risorse certe si può fare una realistica programmazione di investimenti per le infrastrutture: poche ma sicure. Per aprire un nuovo ciclo e per costruire un programma, però, c’è bisogno di generare nuove energie “civiche” senza le quali da queste parti non si vince mai. E un programma civico può costruirlo solo un partito aperto e che elabora proposte e contenuti e che costruisce così una“vocazione maggioritaria”.
Questa espressione a qualcuno può non piacere. Preferiamo parlare di “egemonia” o di “nuovo interclassismo sociale”? Non cambia molto.
da Europa Quotidiano 13.05.11