Sarà perchè la cura della famiglia è soprattutto sulle loro spalle. Oppure perché ancora oggi, nonostante l’aumento delle donne laureate, l’occupazione femminile si concentra nei settori professionali dove le retribuzioni sono più basse.
Tra queste e tante altre discriminazioni di fatto, il risultato è che in Italia l’anno europeo delle pari opportunità, il 2007, sembra essere passato invano.
Il Global Gender Gap Report del 2008, cioè lo studio del World Economic Forum sulle diversità tra uomini e donne, ci mette al 67° posto.
In recupero rispetto all’85° del 2007, ma sempre sideralmente lontani dalla Norvegia (prima), dalla Germania (11° posto), dal Regno Unito (13°) e dalla Francia (15°),mentre ci batterebbe addirittura il Botswana. Nel paragone mondiale non sono messi bene nemmeno gli Stati Uniti, al 27° posto. Ma il nuovo presidente Barak Obama ha affrontato di petto la questione: la prima legge firmata è quella sulla parità salariale.
A guardare indietro, l’Italia lo ha fatto in tempi record: nel 1977, quando Tina Anselmi, unico ministro del Lavoro donna della Repubblica, volle una legge che vietava le differenze di retribuzione. Legge approvata, ma mai realizzata. Basta leggere le tabelle, delle più diverse fonti, per averne la conferma (i numeri divergono per differenti modalità di calcolo): secondo i dati Eurostat il differenziale è del 9%, ma sale al 16% secondo l’Eurispes, al 23% in un’indagine sulla famiglia della Banca d’Italia e al 26,8% secondo un’elaborazione Ugl su dati Istat.
Proprio per approfondire numeri e motivazioni, il Sole 24 Ore comincia oggi una serie di articoli. L’argomento nel Governo è sotto osservazione. Al ministero delle Pari opportunità, spiega il capo dipartimento Isabella Rauti, si sta lavorando da qualche mese, insieme al Welfare, a un pacchetto di interventi sulla conciliazione dei tempi di lavoro. «Stiamo individuando almeno cinque misure concrete, con alcuni progetti pilota», dice la Rauti, aggiungendo che ci si ispirerà al modello francese, e cioè ad una consistente offerta di servizi a favore delle donne. Se le lavoratrici guadagnano di meno, è l’analisi della Rauti ma anche di sindacaliste come Renata Polverini,numero uno dell’Ugl, è perchè devono occuparsi dei figli e parenti. La presenza dei figli penalizza di oltre un terzo la busta paga delle donne: gli impegni familiari, secondo l’Istat, pesano per il 70% su di loro, anche se gli uomini partecipano di più rispetto al passato.
Non c’è tempo per glistraordinari, niente premi aziendali legati alla presenza, pochissimi benefit. Una situazione analoganell’industria e nel pubblico impiego. A leggere i numeri elaborati da Iper Ugl su dati Unioncamere, le differenze più forti riguardano gli operai specializzati (-20,8% per le donne). Il divario è molto forte nelle professioni intellettuali- scientifiche (-18,8%) e nelle professioni tecniche (-17,7%).
Nel 2009 l’argomento è sotto i riflettori: a novembre scorso il Parlamento europeo ha impegnato la Commissione a presentare entro il 31 dicembre una proposta legislativa sulla parità di retribuzione. «La Ue punta su due principi: il ruolo della contrattazione e il concetto di valore del lavoro, rivedendo l’intero sistema delle competenze e delle classificazioni», dice la Rauti. Un esempio: spostare l’accento dalla forza fisica come è oggi alle competenze e alla responsabilità.
Un intervento culturale ma con risvolti pratici importanti: altra componente del differenziale salariale femminile è la «segregazione» delle donne in occupazioni pagate di meno. Tradizionalmente il lavoro della donna è stato quasi una prosecuzione di quello a casa: nell’istruzione la loro presenza arriva al 77%, mentre sono oltre il 60% nel servizio sanitario nazionale. Negli uffici del pubblico impiego sono la maggioranza, il 54,7%. E anche se aumenta il numero delle laureate, le donne manager in Italia sono appena il 23,3% del totale, dato che scende al 10% nell’industria privata. «Per fare carriera le donne spesso sono costrette ad accettare retribuzioni più basse», dice la Polverini. La parità è una battaglia dei suo sindacato: «Bisogna smettere di chiedere misure per incentivare il lavoro femminile. Bisogna spostare l’attenzione sulla famiglia e sui servizi», insiste la segretaria Ugl, che con questo obiettivo da mesi si batte per il quoziente familiare. La riforma sulla conciliazione dei tempi di lavoro è certamente un tassello importante. Sempre che, tra ammortizzatori sociali e interventi contro la crisi, alla fine si trovino i soldi.
Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2009