Dunque, oggi o al massimo domani, la camera voterà l’inversione dell’ordine del giorno per passare subito ai voti sulle Dat (testamento biologico). Si deve approvare questo testo così com’è, e subito, sostiene chi non ha mai detto una parola nei due lunghi anni in cui la maggioranza l’ha tenuto nei cassetti. Personalmente resto dell’avviso, già espresso in sede di discussione generale (e in un articolo su Europa), che la morte non possa essere giuridicizzata. Essa può arrivare, infatti, in modo imprevedibile e immediato per un incidente o un accidente, o può arrivare con quella gradualità che ne consente la preparazione e l’accoglienza. Questa seconda ipotesi, quando si verifica, è una grazia se la si riesce a vivere con il rispetto della sacralità di quel momento, indipendentemente dalle convinzioni personali, «perché è una soglia sacra per tutti, credenti o non credenti, precisamente per il suo carattere di definitività, di assoluto non ritorno e dunque di ultima estrema possibilità » (Bruno Forte, Il Sole 24Ore, 4 ottobre 2009).
Il letto di quel paziente diventa, a prescindere dalla fede, un tabernacolo al quale chi ne è esterno si accosta, nel dolore e nel mistero, e avverte tutto il peso e la violenza di possibili invasività della tecnica o della legge. Sì, perché anche la legge, quando pretende di prevedere e imbrigliare tutte le circostanze che inevitabilmente le sfuggono, può diventare invasiva e ingiusta.
Per questo io credo che sarebbe saggio non legiferare.
Vi è infatti un’etica del limite anche per il legislatore.
Condivido quanto scriveva già trenta anni fa Jacques Ellul: «Il diritto è indispensabile per la vita delle società, ma il rifugio assoluto nel diritto è mortale per la negazione del calore, dell’elasticità, della fluttuazione delle relazioni umane che sono indispensabili affinché un corpo sociale, quale che sia la sua dimensione, possa vivere e non solo funzionare. Un eccesso di diritto e di rivendicazioni giuridiche sfocia in una situazione nella quale, al termine, il diritto stesso diventa inesistente» (Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, Giuffrè 1981).
Oggi, infatti, la norma positiva, statale o metastatale purtroppo tende sempre più a definire ogni aspetto della vita sociale occupando territori che fino a poco tempo fa erano governati dall’etica dei comportamenti e dal buon senso. E ciò spesso avviene anche con l’oggettiva complicità di quei cristiani sempre più confidenti nella forza della legge per garantire la virtù. Io resto, invece, convinto che vi siano temi che, per evocare A.C. Jemolo, «la legge può solo lambire», e, fra essi, vi è sicuramente quello della morte. Lo stesso cardinale Ruini, nella prolusione all’Assemblea della Cei del 22 gennaio 2007, dopo avere ribadito che non è mai consentito «privare il paziente del necessario sostegno vitale», aggiungeva che «in questa materia così delicata appare norma di saggezza non pretendere che tutto possa essere previsto e regolato dalla legge».
Però si obietta ora che le cose sono cambiate dopo la sentenza della Cassazione sul caso Englaro, che è arrivata tra l’altro a ricostruire la volontà della paziente senza riscontri oggettivi. Considero molto seria l’obiezione, anche se suggerisco di situare quella sentenza nel singolarissimo contesto di una emozione collettiva intenzionalmente alimentata attraverso una forte pressione mediatica, senza rinunciare a considerarla profondamente sbagliata, frutto di una clamorosa esondazione rispetto alla prescrizione dell’art. 101 della Costituzione ( «i giudici sono soggetti soltanto alla legge»), a favore di una creatività del diritto che non è consentita al magistrato. Sono infatti in vigore gli articoli 575 (omicidio), 579 (omicidio del consenziente), 580 (istigazione e aiuto al suicidio), e 593 (omissione di soccorso) del codice penale che costituiscono un inequivocabile complesso normativo a tutela dell’intangibilità della vita umana, che in quel caso non sono stati tenuti minimamente in considerazione. E ciò non è accettabile.
Ma se si pensa che un errore del giudice in presenza di tante norme prescrittive possa fare giurisprudenza, non sarà una nuova norma a impedire la ripetizione di una analoga grave contravvenzione delle disposizioni costituzionali che obbligano i giudici a limitarsi ad applicare ed interpretare le leggi, e non certo a violarle e sostituirle. Il rimedio, dunque, non rimedia e per di più determina una invasività legislativa insopportabile quando si cala nello spazio di un “fine vita” preciso e personale la cui titolarità pertiene esclusivamente all’alleanza umana e terapeutica fra paziente (o suo fiduciario), famigliari e medico curante.
Del resto mi parrebbe prudente riflettere sulla circostanza che, non a caso, i paesi che hanno legiferato in materia, sono proprio quelli che, nelle intenzioni non sempre esplicitate, manifestano un’apertura alla prospettiva eutanasica: dalla legge che pur non la prevede, passo dopo passo, interpretazione dopo interpretazione, si può (o si vuole) arrivare là dove si afferma di non volere. Meglio, perciò, nessuna legge.
Così come inviterei tutti i sostenitori del testo in esame, a considerare il rischio che una legge che giuridicizza in modo tanto evidente la morte, sia particolarmente esposta alla possibilità non solo di proliferazione del contenzioso, ma anche di un intervento di mutilazione da parte della Consulta delle parti di dubbia legittimità costituzionale. Anche per questo mi pare apprezzabile l’esortazione che Pierluigi Bersani fa nel suo recente libro-intervista al legislatore «di procedere con assoluta cautela, rispetto e direi leggerezza (…), deve fare il meno possibile perché questo è uno dei territori in cui bisogna coltivare il limite della politica». E io vado oltre e dico che il legislatore deve proprio rinunciare a legiferare, bastando i paralleli divieti all’eutanasia e all’accanimento terapeutico già presenti nell’ordinamento. Il resto è di più, anzi appartiene alla coscienza, alla scienza, alla intelligenza e alla fede (se c’è) delle persone coinvolte. A loro e non alla legge.
da Europa Quotidiano 27.04.11