Che foste in piazza oppure no, tutti possiamo contribuire alla “resistenza culturale”. Il 25 aprile deve travasarsi in un lavoro quotidiano che non consente deleghe: un compito a cui siamo chiamati tutti, faticoso, ma irrinunciabile. In una Milano deserta, il corteo era affollato come sempre, colorato, tranquillo: l’invito a disertarlo per la gita di pasquetta
è caduto nel vuoto. Buon segno. E per fortuna non piove.Sui volti e nei discorsi delle persone che inondano le vie di una città ancora scossa dai manifesti osceni che paragonavano i magistrati alle Br affiorano però anche i sentimenti che ho incontrato di frequente nelle ultime settimane tra amici, colleghi, sconosciuti incontrati per caso: un forte senso d´impotenza, esasperazione, stanchezza. Sentimenti che io stessa ho provato. Sprazzi di rabbia – nei ragazzi che urlano dai carri “via il Rais”, un Berlusconi dipinto con la faccia da Joker, il nemico di Batman. Nelle strade, su cartelli, magliette, spille e striscioni, si sente l´effetto di logoramento psicologico prodotto dalle violente esternazioni antisistema di Berlusconi e dell´ala più oltranzista dei suoi sostenitori, a cui si è aggiunto il solito can can di dichiarazioni che sviliscono la festa nazionale di Liberazione.
Camminare in questa folla ripropone più urgenti domande e riflessioni: che effetti cerca chi da anni avvelena sistematicamente i pozzi mistificando i fatti, equiparando partigiani e ragazzi di Salò, magistrati e brigatisti (o trasformando i mafiosi in eroi e i latitanti in esuli politici perseguitati)? Lavora prima di tutto sul proprio elettorato, come ha scritto su queste pagine Miguel Gotor: distoglie il dibattito da problemi urgenti e complessi come economia e lavoro (norme blocca-processi e boutade blocca-discorsi: un cocktail mefitico), catalizza il consenso del ventre profondo della destra. Ma contemporaneamente agisce su chi non si riconosce nel governo e rinuncia alle vacanze piuttosto che al corteo antifascista: mette alla prova i nervi, ruba tempo, spazio, energie, vuole rinfocolare – irresponsabilmente – asperità e divisioni antiche e ancora sensibili.
Come quelle che si riaffacciano ogni 25 aprile. Perché la Resistenza è stata una guerra civile, ha avuto tante anime conflittuali al suo interno – e intristiscono i fischi ottusi (pochi per fortuna) ai partigiani della Brigata ebraica, definiti, addirittura, “fascisti”. La Costituzione è nata dalla dittatura e dal sangue, dalla coraggiosa mediazione tra le forze antifasciste per un interesse superiore: per questo è ancora così viva, per questo – non per feticismo – tanti, Napolitano in testa, la difendono dai ripetuti attacchi.
Si aizzano le tensioni per poi atteggiarsi a vittime; si lanciano menzogne e provocazioni per suscitare reazioni esasperate e irrigidire il dibattito – laddove serve piuttosto mantenere la mente lucida, coltivare “la virtù civile e morale del distinguere”, come l´ha chiamata Giovanni Moro nel bel libro sugli anni Settanta. La destra antisistema ha capitalizzato tutte le reticenze e i ritardi della cultura di sinistra. Il successo delle pubblicazioni di Pansa sul “sangue dei vinti” uccisi dai partigiani riposa sul fatto che le ricerche storiografiche sullo stesso tema hanno faticato a trovare spazio nella retorica pubblica. Traumi, errori, aberrazioni vanno elaborati, devono trovare spazio nella discussione collettiva, altrimenti tornano ad assediare il presente come fantasmi che chiamano vendetta. Distinguere è più difficile quando chi governa vuole confondere, e più che mai necessario.
“Non consentire che la storia del Novecento anneghi nell´indistinzione”, era l´ammonimento dello storico Luzzatto davanti alla crisi dell´antifascismo dopo l´89. Contro chi vuole azzerare la differenza sostanziale tra le scelte di partigiani e salotini, sempre valida la risposta di Vittorio Foa al missino Pisanò, che invocava l´esistenza di “ideali” seppur diversi, e il comune attaccamento alla patria: «Sarà pure come dice lei, però se vinceva lei io sarei ancora in prigione, avendo vinto io, lei è senatore della Repubblica e parla qui con me». La Resistenza ha avuto eccessi violenti, che non cancellano il suo valore: dovrebbero ricordarci, piuttosto, quanto efferata fu la dittatura fascista, dove stanno le radici di certi strascichi sanguinosi. Analogamente, qui a Milano viene spontaneo ricordare che chi vuole denunciare i malfunzionamenti della giustizia e le ferite al garantismo non può equiparare i magistrati che cercano di far funzionare la macchina della giustizia alle Br (forza antisistema che sabotava la logica democratica del processo e i magistrati li ammazzava), né tollerare che lo faccia il proprio leader, nella sua lotta senza quartiere contro chi cerca di processarlo: dovrebbe tenerlo presente il sindaco Moratti, che oggi era in piazza, ma non ha ancora esteso al premier le parole di condanna rivolte all´aspirante consigliere comunale Lassini. La giustizia è imperfetta, come tutte le cose umane, ma errori, abusi, eccessi si correggono dentro al sistema, non picconandolo. La critica delle aberrazioni non può coesistere con la negazione di fatti e principi costitutivi della nostra democrazia affaticata.
Il pomeriggio milanese le ridà un po´ di fiato. Sul palco sotto il duomo si sono alternati Moratti e Bersani, e considerando il clima pesante, i fischi non sono stati nemmeno tanti. Attenzione e applausi per l´intervento conclusivo del presidente dell´Anpi Carlo Smuraglia. Le strade piene che tardavano a svuotarsi trasudavano un forte desiderio di “liberazione”: da una cappa di menzogne, dallo svuotamento delle parole. Oltre al significato storico, “resistenza” nel linguaggio comune vuol dire opporsi a una pressione, rifiuto di abbandonarsi alla corrente, capacità di un organismo di contrastare le infezioni e sopportare sforzi prolungati, come nelle gare di fondo. E bisogna resistere, in questo senso, alla stanchezza e all´esasperazione. Controllare sentimenti che spesso rasentano il disgusto, mantenere la pacatezza senza rinunciare a ribadire con forza fatti, valori, convinzioni. Tutelare le parole. Non stancarsi di ristabilire la correttezza dei fatti storici. Uscire dal guscio degli interlocutori abituali, provare a parlare con chi la pensa diversamente, cercare umilmente di essere chiari, anziché alludere; argomentare per la persuasione, invece di rincorrere la provocazione o rassicurarsi a vicenda nel proprio orto. Certo, si rema contro il moloch della tv, contro posizioni refrattarie al dialogo, ma non siamo (ancora) impotenti. Come esiste una fascia di elettori incerti o disillusi, così ci sono molte persone semplicemente disinformate o stanche. Ci sono ragazzi che non hanno idea. Che foste in piazza oppure no, tutti possiamo contribuire alla “resistenza culturale”. Il 25 aprile deve travasarsi in un lavoro quotidiano che non consente deleghe: un compito a cui siamo chiamati tutti, faticoso, ma irrinunciabile.
La Repubblica 26.04.11