Non capita molto spesso che Berlusconi e Bersani possano brindare insieme, ma stavolta invece sì. La decisione del governo di cancellare i piani per il nucleare, pur salvando l’Agenzia preposta al settore per non dare la sensazione di una completa (e prematura) smobilitazione, annulla di fatto il referendum promosso in materia da Di Pietro e dagli ambientalisti. Anche se sarà la Corte di Cassazione a doversi pronunciare per sospendere materialmente la consultazione, la delusione dei promotori, accompagnata dalla moderata soddisfazione del Pd e dal silenzio governativo (è sempre spiacevole dover ammettere di esser tornati sui propri passi), lasciavano intendere già ieri che la sorte del referendum è segnata. E con quello del voto sul nucleare, probabilmente, anche il destino degli altri due, sul legittimo impedimento e sulla privatizzazione dei servizi di distribuzione dell’acqua.
L’unione di tre argomenti così eterogenei era stata considerata strategica per tentare di superare, dopo quasi tredici anni, l’endemica crisi attraversata dalle consultazioni referendarie, tutte fallite negli ultimi tempi perché l’affluenza alle urne non ha più raggiunto la fatidica soglia della metà più uno degli elettori prevista dalla legge per la validità del voto. Specie dopo l’incidente di Fukushima, dovuto al terremoto in Giappone, era sicuro che il referendum sul nucleare avrebbe fatto da traino agli altri due, uno dei quali, avendo al suo centro il legittimo impedimento, legge già depotenziata dalla Corte Costituzionale, e in scadenza ad ottobre, era stato proposto con l’intento di trasformarlo in una sorta di giudizio popolare su Berlusconi e sui suoi attacchi ai giudici.
In questo senso si può dire che il Cavaliere, già oberato dalla campagna elettorale per le amministrative e dalla ripresa dei processi di Milano, ha preferito non correre ulteriori rischi. Una ragionevole prudenza, in linea con atteggiamenti corrispondenti di altri governi europei – a cominciare dalla Merkel, che ne ha pagato il prezzo nelle recenti elezioni locali tedesche -, preoccupati degli effetti emotivi della paura del nucleare sui cittadini. E una frenata ragionevole, anche in giorni in cui il premier, fin dai primi comizi della corsa per i sindaci, ha alzato i toni della sua campagna fino all’inverosimile. Inoltre una decisione non sgradita, come s’è visto, al Pd, che aveva accolto di malavoglia la mobilitazione referendaria dipietrista e che si sarebbe cimentato ancor più svogliatamente nella campagna per il voto: il cui merito, in caso di sconfitta del premier, sarebbe andato tutto al leader di Italia dei Valori, e le cui conseguenze, in caso contrario, di vittoria del governo o dell’astensione, sarebbero ricadute sul maggior partito di opposizione.
A questo punto l’onere di sostenere le consultazioni rimaste in piedi, sottraendole all’apatia e alla scarsa partecipazione che potrebbe affossarle, oltre che alla calura estiva del 12 giugno, data assai poco mobilitante in cui non a caso è stato fissato l’appuntamento con le urne, pesa tutto sulle spalle di Di Pietro. Che non a caso – diversamente dal Pd che quasi ha festeggiato la moratoria nucleare del governo, attribuendosene non si sa perché il merito -, ha denunciato il nuovo attentato di Berlusconi ai referendum e alla volontà popolare.
La Stampa 20.04.11