Antonio Scarpa ha un compito arduo, ma strategico. Ogni anno, grazie a una squadra di 500 ex professori universitari alle sue dipendenze, e grazie alla collaborazione di 30mila scienziati, deve esaminare 100mila domande di finanziamento alla ricerca medica.
«Il sistema della peer review – spiega Scarpa, che dopo essersi laureato a Padova nel 1966 ha avuto una lunga carriera nella ricerca e nell’insegnamento – funziona a meraviglia: solo i progetti migliori ottengono fondi. Non ci sono concorsi, o finanziamenti fissi per università o aree geografiche: conta solo il merito. In ballo, ci sono 31 miliardi di dollari». Come avrete capito, Scarpa non lavora in Italia. È il responsabile del Center for Scientific Review del NIH, il National Institute of Health americano.
La peer review – scienziati che valutano il lavoro degli scienziati – in Italia praticamente non esiste. I finanziamenti statali, circa l’1% del Pil e circa la metà dei maggiori concorrenti europei, vengono distribuiti senza il metro del merito, che pure la contestata riforma Gelmini tenta di introdurre. E fra stipendi magri, ricercatori che invecchiano in attesa di un posto e un sistema dove la burocrazia è semplicemente opprimente, i cervelli non sono incentivati come dovrebbero. Alcuni fuggono. Alcuni lottano lo stesso in laboratorio. Ma tutti sognano qualcos’altro. «Chiudersi nella propria ricerca, pubblicare sulle riviste più prestigiose, viaggiare: solo così ci si sente parte di un mondo stimolante, dove si viene giudicati per quel che si vale», dice Francesco Sylos Labini, coautore di I ricercatori non crescono sugli alberi, non un cahier des doléances, ma un libro che incita l’Italia a cambiare.
È un disastro? Beh, non proprio. «Nel numero di pubblicazioni per ricercatore siamo ai vertici mondiali», ricorda Franco Miglietta, dell’Istituto di Biometeorologia del Cnr. Nel 2009, l’Italia era nona nella computer science, ottava nalla fisica, settima nella biochimica e nelle neuroscienze, sesta nella matematica: una performance da paese del G8. «Sono pochi scienziati molto produttivi che tirano la carretta», sentenzia Miglietta.
La classifica «Top Italian Scientist», facilmente reperibile sul web e pubblicata l’anno scorso da due ricercatori emigrati, ha fatto un certo baccano e molti la considerano controversa: è la lista dei ricercatori italiani, inclusi quelli all’estero, che hanno un H-index superiore a 30. L’H-index serve a calcolare la produttività scientifica di un ricercatore (ma anche di un istituto, o di un paese) tenendo conto del numero di pubblicazioni sulle riviste internazionali, tutte rigorosamente peer-reviewed, e di quante volte sono state poi citate da altri: più o meno, quel che fa Google con il suo algoritmo per indicizzare le pagine web. Ma gli scienziati italiani con un H-index superiore a 30 sono oltre 1.800. Non pochi: tanti.
La ricerca è una competizione, ma non fine a se stessa. La ricchezza delle nazioni dipende ormai anche dalla scienza. «C’è un’evidente correlazione fra la la spesa in ricerca e il tasso di crescita dell’economia», ammette Luciano Maiani, il fisico che dal 2008 presiede il Cnr. «L’innovazione deve partire dalla ricerca, per poi propagarsi al sistema industriale. Gli investimenti statali sono sotto la media europea, ma non terribilmente. Semmai, qui da noi i privati investono in ricerca appena lo 0,3% del Pil e questo dato è assai inferiore che all’estero».
Tuttavia, i Governi che si sono succeduti negli anni non hanno dimostrato di comprendere la relazione fra ricerca (inclusa la ricerca di base, non solo quella applicata) e crescita economica, come succede nel Regno Unito o in Germania. C’è forse bisogno di un capo dell’esecutivo laureato in fisica come Angela Merkel? «Tony Blair non era un fisico, ma ha fatto un’eccellente riforma universitaria», risponde Maiani. «Ma se ci fossero dubbi – osserva Miglietta – non si è mai visto un paese dove il Pil cresceva mentre gli investimenti in ricerca calavano». E qui sta il nodo. Un alto H-index riflette, per sua stessa natura, i successi scientifici del passato. Il piazzamento tutt’altro che onorevole delle università italiane nelle classifiche mondiali, è un promemoria del presente. Così, quando si parla del futuro della ricerca italiana, salta agli occhi un chiaro deficit di lungo periodo.
La scienza è diventata un’impresa globale. Ci sono 7 milioni di ricercatori nel mondo e la spesa internazionale in ricerca e sviluppo ha superato i mille miliardi di dollari (+45% sul 2002). Oggi che siamo nella cosiddetta “Economia della conoscenza”, il sapere è una variabile imprescindibile della competizione. E il sistema italiano sfavorisce – senza appello – la categoria più strategica per questa disfida della conoscenza: i giovani. «I cervelli sono come i calciatori: i goal si fanno per una quindicina d’anni, non di più. Chi è bravo e non ha una squadra dove giocare, se ne va altrove», osserva Maiani.
Ecco perché il mestiere di Antonio Scarpa è strategico (per gli americani). Perché è il trionfo della meritocrazia. «Se i ricercatori ottengono i finanziamenti – spiega lui stesso – l’NIH ne versa più o meno altrettanti alle università dove questi lavorano, per coprire i costi amministrativi. Le università vengono sostenute dai fondi federali solo così: ecco perché fanno tutte a gara per assoldare i ricercatori migliori». Il sistema italiano invece, non difetta solo di meritocrazia e competizione. Gli manca anche la flessibilità. «C’è uno spaventoso carico burocratico non solo per ricevere i fondi statali, ma anche quelli europei», lamenta Alberto Mantovani, prorettore alla ricerca all’Università di Milano. «E l’articolo 18 della legge Gelmini ci ostacola perfino nell’assumere un tecnico per un progetto di due o tre anni».
Il Sole 24 Ore 13.04.11