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"I martiri del mare spariti nella ricerca del sogno europeo", di Domenico Quirico

Nell’entroterra della Tunisia, città intere rimaste senza più giovani, padri che piangono i figli partiti e mai arrivati: “Forse non può chiamare”. A Tataouine non c’è il mare. Solo sabbia e roccia; anche le case hanno un colore bigio dentro a quei muri la luce gioca con chiaroscuri risentiti, il vento dal deserto si ingolfa nelle strade, gonfia le tende e le cose. Le vesti delle donne che qui sono ancora quelle berbere, tradizionali, antiche sembrano grossi fiori seminati dal vento tra le connessure dei sassi. Molti anni fa vi hanno girato alcuni esterni di «Guerre stellari», le sequenze di un pianeta desolato nelle più lontane galassie, una sorta di deserto siderale.

Non c’è il mare, ma tutti ne parlano, conoscono i venti e le maree, le sue furie improvvise e i lunghi giorni di bonaccia: il Mediterraneo, il loro sogno, la loro maledizione. La giovane rivoluzione tunisina con orgoglio affigge nelle strade i volti dei suoi martiri, i giovani che dandosi fuoco e immolandosi davanti alle raffiche degli sgherri di Ben Ali il tiranno, hanno costruito la rivoluzione. Ed è bene, bisogna avere degli eroi.

Un giorno forse affiggerà sui muri anche i volti dei ragazzi che sono partiti in mare, hanno tentato il passaggio in Europa e non sono tornati. Anche loro sono eroi. Costruirà uno di quei sacrari ingenui e strazianti che si vedono nei nostri paesi di costa, con gli umili ex voto di quelli che si sono salvati e le rappresentazioni schizzate alla meglio di come il mare sappia essere crudele e senza scampo. Ci vorrà spazio, per questo. Perché sono molti, troppi: questa gioventù immolata al sogno di una vita migliore, questi emigranti che hanno pagato, invano, una fortuna il loro eroico diritto di partire.

Ci vorrà tempo per ritrovare tutti i nomi, che sono centinaia, forse migliaia. Nessuno finora si è occupato di loro. Come fossero i dispersi di una guerra perduta. Sotto la dittatura partire era un reato, era meglio tacere. E dopo: dopo, nessuno ha interesse a parlarne, a cercare, noi per non turbare la nostra buona coscienza di avari, e loro, i tunisini, perché hanno il pudore orgoglioso di fallire, rispetto agli altri che ce l’hanno fatta. Non c’è nulla di più duro dell’orgoglio dei poveri.

Perché cercarne le fila proprio a Tataouine? Perché, come molte città e villaggi dell’interno della Tunisia sommersi dalla povertà, sono stati svuotati dalla fuga verso l’Europa, sono città senza giovani. E qui le storie di quelli che sono scomparsi nel mare sono tante, troppe. Quante? Impossibile fare statistiche, Bisognerebbe percorrere tutto il Paese, con metodo, inseguire le rotte di barconi partiti, di messaggi che non sono arrivati, di storie improvvisamente interrotte. E poi sono drammi che risalgono per lo più a tre, quattro anni fa; quando ancora si partiva dalla Libia perché qui funzionava la caccia di Ben Ali ai clandestini che erano diventati la sua cambiale, il suo buon affare con l’Europa. L’epoca dei gommoni, degli scafisti libici senza pietà e dei loro soci di Bengarden, città tunisina di traffici lerci e di frontiere porose.

Poi ci sono le storie recenti, quelle già dell’epoca di Lampedusa, dei passaggi pagati mille euro, dei passeur tunisini. Attenti: nulla è cambiato, con quelle barche arrivare nell’isola è un caso fortunato, la regola semmai è il dramma, il naufragio, come quello che questa settimana ha inghiottito la nave degli africani e i suoi 150 disperati. Quante barche, da gennaio, sono scomparse nel Canale di Sicilia nella notte, senza testimoni, senza possibilità di chiedere aiuto?

Il meccanismo è sempre lo stesso: una puleggia che si inceppa, un filo che si schianta, il motore che si ferma e con esso la pompa che aspira l’acqua nella stiva. Un incidente minimo, di cui non sapremo mai nulla. Abbiamo di quegli istanti solo il racconto dei pochi sopravvissuti: i gelidi soffi e i respiri del mare, come di una massa che ti striscia a lato, qualcosa pronto a balzare. E dopo qualche ora la superficie torna vuota come innanzi che il mondo fosse.

Questa Tunisia dei migranti è divorata dalla mancanza di un domani, non la senti subito, è una specie di polvere, vai e vieni senza vederla, la respiri, la mangi, la bevi, ti divora sotto i nostri occhi e non puoi farci nulla. Se restate qualche giorno qui, forse sarete vinti dal contagio, si può vivere molto a lungo con questo in corpo.

Quella di Mohamed è una di queste storie antiche: 2007, agosto. Partiti da Zouara, in Libia, appena oltre la frontiera. In venti su un gommone, tutti amici, tutti nati qui. Il padre e il fratello di Mohamed raccontano con una voce, un accento che il passare degli anni ha reso astratto, sembra uno di quei vetri smerigliati che lasciano passare soltanto una luce diffusa in cui l’occhio non distingue nulla. Non oso dire che sotto tale superficie del tempo il dolore si sia decomposto; si è pietrificato, piuttosto.

«Ci ha chiamati con il telefonino quando era già in mare, era partito di nascosto perché sapeva che ci saremmo opposti, che l’avremmo fermato. Poi ancora una chiamata, esattamente dopo un giorno: “Siamo quasi arrivati, è fatta anche se il motore funziona male…”. Dopo queste parole il contatto è caduto. Poi più nulla. E anche dagli altri che erano con lui solo silenzio. Abbiamo aspettato, aspettiamo ancora». V’era quasi appena un impalpabile rimorso, d’aver inferto al figlio il colpo mortale, accettando il distacco e la lontananza, di non aver intuito nulla. Mi ha messo in mano la sua foto, quasi a forza, non la volevo: «Tienila, quando torni in Italia tu puoi forse fare qualcosa…».

Il padre di Yassin invece non si è rassegnato. Anche suo figlio è partito nel 2007 e voleva andare in Belgio dalla sorella, che vive là ed è sposata. Inghiottito dal silenzio: ma non completamente. Il dolore, dopo tanti anni, è ancora vivo, si dibatte, è come un’acqua torbida in cui è immersa la vita di quest’uomo che per incontrarmi ha indossato il vestito buono. Tira fuori una busta, custodita in fondo a un cassetto con le cose preziose di famiglia: dentro, impallidita dalle innumerevoli volte in cui è stata aperta, dispiegata interrogata per ore, la fotocopia di una foto a colori: su un molo, o forse è il ponte di una nave, controllati da uomini in uniforme, un gruppo di ragazzi. Sono seduti a terra, come si usa con i prigionieri. «Ecco, vedi: il terzo qua dietro… è lui. È Yassin… e questo è il suo amico di infanzia… e l’altro in seconda fila, un altro ragazzo di qua..». E gli mette a fianco una fototessera, grande.

Yassin ha la faccia spavalda di chi ne ha combinate di tutti i colori, un figliol prodigo ma di quelli che, alla fine, tornano sempre a casa, pentiti, innocenti. Stento a trovare somiglianze, il volto sulla foto di gruppo è troppo minuscolo, quasi senza contorni. Mi vergogno di non avere l’amore disperato che aguzza la vista. «Questa foto l’ha mandata mia figlia, è uscita su “Le Figaro” e la didascalia diceva che era un gruppo di clandestini salvati dalla polizia italiana. Le date corrispondono… lui è lì, forse è ancora in prigione da qualche parte, per questo non ha più chiamato…». Dopo quattro anni… Ho la rabbia per questa causa perduta, per questa assurda quadrata certezza che subito gli si rinsalda dentro! Ma taccio, cerco di accogliere umilmente questo dolore, mi sforzo di farlo diventare mio, di amarlo.

Girando per le case degli scomparsi non ho mai parlato con le madri, le sorelle. Certo le ho viste in una stanza, in attesa; sono anche comparse con il cibo e il tè della fastosa ospitalità contadina, che si svena per darti il benvenuto. Ma non ho mai incontrato il loro lato di dolore. Che è tutto maschile: di padri di fratelli di cugini di amici. La scomparsa di Nizar è più recente, una delle ultime partenze prima che gli accordi con Gheddafi fermassero anche la via libica. Il padre racconta, in una casa in Rue de Tadjkistan in cui i suoni, qualsiasi suono sembra già troppo forte; con voce interrotta, rapida, come ci si libera di una confessione umiliante, una voce da confessionale: «Lo so che è passato troppo tempo, che avrebbe già dovuto chiamare e poi in ogni caso gli altri per lui… ma come posso rassegnarmi e tacere?». Già; noi siamo uomini di un mondo che riflette calcola le probabilità. Ma per chi ha accettato una volta per tutte, come questa gente, la presenza del divino in ogni istante della nostra povera vita, che peso possono avere le probabilità? Calcolare a che serve? Contro Dio non si gioca.

Ancora un Mohamed, un altro. Il padre si è rivolto a un avvocato perché facesse ricerche e l’ha ben pagato: «Dopo un giorno mi ha chiamato, mi ha detto: sono stato a Tunisi, ho fatto il giro di tutti gli uffici, per cercare tracce. Adesso sono in Italia, ma non c’è niente neppure qui. Spiacente… In Italia… dopo un giorno…».

La sua voce ha sospensioni, nel racconto, di durata infinita, attimi intollerabili. Che si succedono come all’estremo del dolore fisico, pause strane di ottusità e di atonia. Quando quasi non si crede di aver tanto sofferto un minuto prima. E mi dicevo che non avrebbe resistito. Per ascoltare storie come questa ci vuole una pietà forte e dolce, come quella dei santi, l’infantile paura che si prova per le sofferenze altrui.

La Stampa 10.04.11

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“Il fallimento di Maroni”, di Luigi Manconi

Una sorta di sciovinismo pedemontano nutrito di umori alla Oktoberfest, vorrebbe darsi una ripulita con una gita a Bruxelles. Ma quella tardiva pulsione europeista appare tanto insincera quanto abborracciata: così come il ricorso a quel permesso di protezione temporanea previsto dalla legge italiana, pure utile, si rivela un espediente piccino. E così risulta in particolare agli occhi dei riottosi partner europei. Perché questo è il punto: quel provvedimento avrebbe dovuto far parte di una strategia condivisa, e da tempo elaborata e avviata, e non ridursi a un escamotage, buono (buono?) per levare le castagne dal fuoco all’ultimo momento. Ne consegue che oggi sarebbe quanto mai necessaria l’applicazione della direttiva europea 55/2001 sulla tutela umanitaria internazionale, che prevede un programma di distribuzione dei profughi in tutti i Paesi dell’Unione, come da tempo richiedono Emma Bonino e i Radicali. Quella direttiva dovrebbe essere portata dalla Commissione europea al Consiglio dei ministri dell’Interno dell’Unione. Finora colpevolmente non è stato fatto: ma quale credibilità può avere oggi il governo Berlusconi-Maroni nel chiedere che finalmente
quella direttiva sia attivata? Da qui non si scappa.
Dopo tre ani di questo governo, emerge impietosamente una verità: l’esecutivo non ha uno straccio di programma per migranti e profughi. Il Pdl non si è nemmeno curato di elaborarne uno; la Lega si è affidata a due opzioni. La prima («aiutiamoli a casa loro») si è rivelata mera evocazione ideologica, nel momento in cui si certifica che l’Italia è saldamente all’ultimo posto nel fornire aiuti allo sviluppo; la seconda, interamente basata sull’uso della forza, era destinata fatalmente a mostrare la propria impotenza.
Quale idea della politica e quale intelligenza del mondo possono far credere al ceto dirigente leghista, tutto concentrato sul presidio di una “identità inventata” e, allo stesso tempo sulle pratiche di sottogoverno, che un sommovimento planetario come
quello che produce le migrazioni sia controllabile con le motovedette della finanza? E con il reato di clandestinità? E con i Centri di Identificazione ed Espulsione? Perché, al di là delle trivialità xenofobe e delle dozzinali analisi geopolitiche, la Lega rivela il buco nero della totale incapacità del centro destra di elaborare una politica per l’immigrazione. E, infatti, la nuova visita di Silvio Berlusconi a Lampedusa, più che offensiva, appare risibile. Un’altra consunta gag di un vecchio entertainer, che ricorre a un copione frusto mentre il teatro viene colpito dalle bombe. Ma negli attori del grande cabaret tedesco tra le due guerre e persino nelle compagnie del varietà romano e napoletano degli anni ’40 si avvertiva la consapevolezza della tragedia annunciata. Qui, solo futilità e ammuina. Non dico che non funzioni
nell’immediato (è forte in tutti “il bisogno di
consolazione” e di ammuina).Ma dall’entrata in vigore del permesso temporaneo (mercoledì scorso)
a oggi nell’isola sono sbarcati oltre un migliaio di fuggiaschi. Diventa urgente, pertanto, porre mano, da subito, a una seria politica per l’immigrazione che – mentre provvede all’emergenza – programma il futuro. Da un rapporto del ministero del Lavoro si apprende che il nostro sistema economico avrà bisogno di 100mila lavoratori stranieri all’anno, oltre
quelli già regolarmente residenti, per il prossimo quindicennio. Dunque, è concreta, concretissima, la possibilità di fare incontrare offerta e domanda di lavoro, in particolare in una società, come quella italiana, in via di progressivo invecchiamento. Certo, qui dovrebbe soccorrere la politica. Mentre il Fora di ball di Umberto Bossi, più che trucido, risulta
pateticamente autolesionistico.

L’Unità 10.04.11

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«Clandestini invasori» Quando le stesse parole
diventano razzismo, di Igiaba Scego

Il linguaggio usato dai media per raccontare l’esodo dei
migranti trasuda di stereotipi. La prospettiva della narrazione è sempre dalla parte del paese d’arrivo. Mai di partenza

Emergenza, orda, valanga, invasione, assalto, paura. Queste alcune delle parole usate nei media questi giorni per descriverem la situazione nell’isola siciliana di Lampedusa. Tutta la vicenda è stata raccontata sempre da una sola prospettiva quella del paese di arrivo.
Ho notato infatti che nella narrazione è sempre assente la voce dei migrantio dei media non ufficiali. Il discorso mediatico è sempre diretto da un “Noi” che racconta un “Loro”. Il “Loro” è considerato dal “Noi” un problema da eliminare ad ogni costo. Conosciamo questo “Loro” attraverso immagini sempre uguali a se
stesse: li vediamo sui barconi, in fila sotto lo sguardo vigile diun poliziotto con la mascherina (mascherina
che ci rimanda a possibili malattie) o mentre manifestano per un tozzo di pane e un po’ di acqua. Siamo abituati ormai ai primi piani stretti che deformano questi volti stanchi e frustrati. I migranti sono equiparati nei servizi Tv ad animali: puzzano, ringhiano, si agitano. I giovani tunisini si trasformano davanti a nostri occhi in non persone. Non hanno un nome, una età o un sentimento. Questa disumanizzazione che parte dalle immagini culmina nell’uso della parola “clandestino”.
Questa parola disumanizza, non ci fa tener conto delle mille storie individuali, della situazione di partenza da cui il migrante arriva. Cancella tutto e ci fa venire il dubbio che questo qualcuno che arriva forse è un delinquente. Il clandestino è un non essere, non ha emozioni, non ha voce, non pensa e in definitiva anche se respira non vive. È diverso dal “Noi” e deve essere relegato dove non può fare danni. La figura del clandestino ricorda molto da vicino la categoria degli atavici di Lombrosiana memoria, ossia quelle persone che il determinismo scientifico (e razzista) del XIX secolo considerava assassini nati. I media inoltre hanno creato ad arte la distinzione tra migranti buoni e migranti cattivi, da una parte queste non persone, i clandestini e dall’altra i poveri cristi dei rifugiati che scappano dalle guerre. Purtroppo molta sinistra è caduta nella trappola di questa cattiva pratica ideata dal centrodestra e quasi tutti, in buona fede, hanno cominciato a dividere i buoni dai cattivi, i clandestini dai rifugiati. Certi i somali, gli eritrei, gli etiopi sono profughi, provengono da un Corno D’Africa infiammato dai conflitti e hanno davvero bisogno di aiuto. Ma anche i tunisini hanno davvero bisogno d’aiuto. Dobbiamo ricordare che il Nord Africa sta vivendo un momento molto delicato della sua storia e che le dittature che hanno esasperato queste popolazioni sono state appoggiate (e rimpinguate) dall’Occidente intero. Non è un caso che Bettino Craxi sia sepolto proprio in Tunisia. Ben Alì ha purtroppo potuto soffocare la sua gente per anni anche con il nostro aiuto. Servirebbe un piano Marshall per creare lavoro in Tunisia dare una spinta al turismo e trovare una soluzione comune. Questo fermerebbe la fuga dei giovani. Ma nessuno per ora ci sta pensando. Ma queste colpe “europee” (e italiane in particolare) non sono illuminate a sufficienza dai media né tantomeno dalla politica. Non creano opinione. Non portano a provvedimenti. Inoltre, a mio parere, i media non hanno messo in luce nemmeno il parallelismo che c’è tra i giovani tunisini e i giovani italiani. Mi è capitato di pensarci rileggendo giorni fa Vivo Altrove di Claudia Cucchiarato, giovane giornalista italiana residente in Spagna Claudia ha raccolto le storie di alcuni tra le decine di migliaia di giovani che negli ultimi anni hanno deciso di abbandonare l’Italia. Giovani stanchi del precariato, stanchi di non trovare lavoro, stanchi di non vedersi valorizzati. Noretta, Angela, Marco, Roberto, Claudia Cucchiarato stessa hanno trovato altrove la loro vita e ora sono felici di aver riacchiappato il proprio futuro all’estero. Ora questo succede se si ha un passaporto europeo o del cosiddetto primo mondo. Se disgraziatamente non si hanno questi requisiti le cose vanno diversamente. Mi sono chiesta in questi giorni quale sia la differenza tra un Marco, cittadino italiano, e un Ahmed, cittadino tunisino, per esempio. Entrambi hanno 20 anni, entrambi hanno sudato sui libri, entrambi amano il rap e Eminem. Perché per alcuni, la gente di Marco, il diritto al viaggio è un diritto acquisito che non si discute e per altri questo diritto non è contemplato? Perché Marco può prendere un aereo, viaggiare pulito e tranquillo, mentre Ahmed deve prendere un barcone fatiscente e rischiare la vita? Hanno la stessa età, gli stessi sogni, la stessa voglia di futuro. Purtroppo hanno geografie diverse. Dobbiamo a sinistra riflettere anche su questo… perché qui si decide che paese vogliamo costruire nel futuro, se uno basato sui diritti umani o uno basato sui privilegi per pochi noti.

L’Unità 10.04.11