Da mesi, ormai, c’è una sola domanda che domina le chiacchiere degli italiani, sia quelli che la politica la osservano da lontano, magari con distacco e sfiducia, sia i tifosi dell’uno o dell’altro schieramento, smaniosi più di vedere nella polvere l’avversario che al potere la propria parte: questo governo Berlusconi arriverà fino alla fine della legislatura?
La risposta sembra variare di giorno in giorno, come gli indici di Borsa, in un’altalena legata ad altre domande, al contrario, del tutto contingenti. Dipenderà, si dice, dal raggiungimento o no della ormai famosa «quota 330», il margine di deputati della maggioranza che il presidente del Consiglio ritiene possa garantire una navigazione parlamentare meno affannosa per i provvedimenti del suo ministero. Dipenderà, si dice ancora, dall’andamento dei suoi processi, un fronte sul quale si svolge una battaglia pornoleguleia del tutto imprevedibile. Oppure, si dice infine, dipenderà dagli umori tellurici di Bossi, scossi tra gli impegni di Stato del suo ministro Maroni e i brontolii di sondaggi, non più così confortanti, sulle opinioni dei suoi elettori. La domanda che, invece, sarebbe più opportuno farsi è diversa: altri due anni di questo governo per fare che cosa?
Certo, al potere si devono anche fronteggiare le emergenze. E di emergenze, a partire da quella immigratoria dopo lo scoppio del cosiddetto «risorgimento arabo», ne abbiamo sotto gli occhi una davvero tragica, dal punto di vista umano, e complicata, da quello politico. È vero che la gestione dell’esistente, quando è difficile come nel nostro mondo globalizzato, è già un incarico impegnativo. Ma l’ordinaria amministrazione, di regola, è compito affidato ai ministri di un governo dimissionario, per assicurare consegne non traumatiche ai colleghi che prenderanno il loro posto. Ma non tra due anni.
Su tutti i principali temi, la posizione governativa sembra ormai contrassegnata da un atteggiamento difensivo e attendista. In politica estera, come ha dimostrato il caso Libia, l’Italia non ha seguito l’interventismo francese, né il neutralismo tedesco. Ha oscillato tra la condivisione per i dispiaceri di Gheddafi e un tardivo e, forse, ormai inutile riconoscimento diplomatico dei ribelli cirenaici.
In campo economico, il ministro Tremonti ha difeso strenuamente e meritoriamente i conti pubblici, ma, di fronte al perdurare della crisi occupazionale e all’affacciarsi del rischio inflazione, i provvedimenti per lo sviluppo e i progetti di riforma fiscale sembrano ormai rinviati a un futuro che scavalca questa legislatura. Il male profondo, il vero difetto della struttura industriale del nostro Paese, quello che, da circa vent’anni, rallenta drammaticamente la crescita, rispetto alle altre nazioni europee, è, per unanime convinzione, la ridotta dimensione delle imprese. Se questa malattia italiana, ormai cronica e sempre più grave, non viene affrontata con terapie d’urto, per difendere le nostre aziende dalle mire straniere non restano che tardivi provvedimenti difensivi o protezionistici. Di discutibile legittimità e di incerta efficacia.
Ecco perché l’unico impegno governativo per i prossimi due anni pare riservato a quella «epocale» riforma della giustizia che il ministro Alfano ha annunciato, con una solennità forse sproporzionata, e che, ancora ieri, Berlusconi ha invocato per ripristinare «la vera democrazia» in Italia. Peccato che ai provvedimenti superlativi del premier, ormai incline a un crescendo di promesse stupefacenti che non pare aver più freni, seguano iniziative ben più modeste e circoscritte, per lo più, alla personale difesa dagli esiti dei suoi processi. Si capisce, però, perché il presidente del Consiglio riservi sostanzialmente l’ultima parte della legislatura all’offensiva contro i magistrati. Le accuse che lo assillano e le conseguenti sue azioni difensive, nelle aule giudiziarie e in Parlamento, sono l’unica vera garanzia della sopravvivenza del suo governo fino alla fine della legislatura. Costituiscono la migliore blindatura della sua maggioranza. Perché costringono il suo partito, il Pdl, a quella obbligata unità in sua difesa che, altrimenti, si sarebbe disgregata, già da tempo, nella dura lotta alla successione o, meglio, alla spartizione del suo capitale politico ed elettorale. Perché impediscono alla Lega di cedere ai sotterranei, ma tutt’altro che rimossi, impulsi secessionistici, indotti a mascherarsi nel progetto federalista. Perché soffocano qualsiasi ipotesi di una politica alternativa affidata allo schieramento a lui avverso.
Il centrosinistra, ma anche i centristi del Terzo polo, infatti, finché Berlusconi sarà all’offensiva contro i magistrati che lo accusano, dovranno, per necessità, essere forzati a concentrare la loro azione su questo tema. Ancora una volta è il Cavaliere, così, a imporre l’agenda della discussione pubblica. Quella a lui preferita, perché evita il confronto sui temi più importanti dell’attività governativa e, soprattutto, riesce a spostare l’unità dello schieramento avverso dal campo politico a quello giudiziario. Dove si può vincere nella propaganda tv, ma si è sicuramente perdenti in Parlamento. Finché sarà quello il terreno dello scontro, la domanda sulla durata del governo avrà una facile risposta. Così come sarà facile prevedere, purtroppo, quale sorte avranno le riforme che veramente gli italiani aspettano nei prossimi due anni.
La Stampa 09.04.11
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