In mezzo alle fibrillazioni giornalistiche sulla “difesa dei settori strategici” (latte e succhi di frutta?) dal conquistatore straniero, l’intervista di Emma Marcegaglia sul Sole 24 Ore del 1° aprile sollecita un salutare ripensamento sulla politica industriale, annunciando un’assise nazionale il prossimo 7 maggio a Bergamo. Pur ricordando che «la vera politica industriale la fanno le politiche strutturali su fisco, burocrazia, liberalizzazioni» e che «anche il concetto di settore è superato», non manca di aggiungere che «la logica corretta è quella di Industria 2015: si identificano alcuni settori a grande impatto per la crescita su cui investire per creare nuovi progetti, piattaforme di ricerca».
Peccato che, mentre le riforme di fisco-burocrazia-liberalizzazioni non sembrano appartenere al cuore pulsante dell’attività parlamentare, il timido investimento lentamente varato anni fa sui cinque progetti-filiera di Industria 2015 sia ormai uscito dalle priorità del Governo, depotenziato nel finanziamento pluriennale e mutilato di uno dei progetti più promettenti per le potenzialità del Paese (Scienze della vita). Forse la cosa non dispiacerà a quei colleghi accademici che continuano ad aborrire anche la sola espressione “politica industriale”, nella convinzione che in fatto di sviluppo e innovazione i Governi sono più ignoranti del mercato.
Questi economisti intrisi di cultura anglosassone hanno in mente solo i fallimentari “piani di settore” di ormai lontana memoria, ma non dovrebbero ignorare che quasi ovunque (dall’Europa agli Stati Uniti, alle economie dinamiche dell’Asia) gli Stati e le Regioni finanziano robustamente centri pubblici di ricerca e innovazione con cui imprese private domestiche e multinazionali si aggregano in progetti di ampio respiro, lungo filiere innovative (non “settori merceologici”) in vari modi prioritarie per il Paese: energie rinnovabili, salute, ambiente, logistica e mobilità sostenibile delle persone e delle merci, banda larga a diffusione universale, nuovi materiali, automazione, bio-nanotecnologie, optoelettronica e così via.
In un Paese come l’Italia, in cui (nonostante l’ambizioso Istituto italiano di tecnologia) il saldo fra cervelli in entrata e in fuga è pesantemente e persistentemente negativo e in cui il sistema produttivo è poco motivato a ridurre la propria strutturale e atipica frammentazione, ha senso promettere incentivi fiscali alle “reti d’impresa” solo se – per citare ancora la Marcegaglia – esse nascono prevalentemente intorno a progetti tematici a forte valenza tecnologica, in collaborazione con importanti centri di ricerca universitari. L’assenza di grandi progetti di filiera nella politica industriale italiana, e la conseguente vistosa scarsità di fondi a confronto con altri Paesi – dove in tal modo si promuovono prodotti e servizi innovativi co-finanziati col settore privato – è non l’ultima delle ragioni per cui le case madri di molte affiliate italiane a capitale estero (che pure in Italia sostengono ancora un quarto delle spese totali in R&S del settore privato) tendono ormai a non vedere l’Italia come la sede in cui progettare lo sviluppo futuro dei propri investimenti strategici. Mentre resta ferma l’importanza degli insediamenti produttivi e distributivi nel nostro Paese in quanto grande mercato della domanda.
Il Governo federale tedesco ha varato dal 2006 una High tech Strategie con circa 3 miliardi all’anno, mobilitando i suoi grandi istituti di ricerca e trasferimento tecnologico (come Max Planck e Fraunhofer) e la potente Kfw (simile alla nostra Cassa depositi e prestiti) su 17 programmi tematici e tre linee d’intervento orizzontale, con particolare accento sul sostegno alle start up tecnologiche e alle Pmi innovative. Il disegno è monitorato da cinque comitati consultivi con esperti di chiara fama, mentre un apposito ufficio federale è responsabile della valutazione ex post di efficacia dei progetti. Della Francia colbertista, con i suoi programmi mobilizzatori e poli di competitività, non occorre parlare, se non per segnalare (sarà un caso?) che dal 2000 al 2010 la produttività del lavoro lì è cresciuta di quasi 8 punti percentuali, più della Germania, mentre in Italia è scesa di 5 punti. Perfino la cultura anglosassone del Governo britannico non si è trattenuta dal costituire un Technology Strategy Board, che attraverso consultazioni con diverse centinaia d’imprese a capitale nazionale ed estero promuove e valuta in corso d’opera programmi sia di collaborative research che di knowledge transfer con finanziamenti che coprono dal 25 all’80% dei costi e bandi di gara con valutatori esterni (senza click day).
Noi continuiamo a cullarci sugli incentivi a pioggia e sui fondi per le Pmi, vantando le nostre eccellenze (che ci sono ma restano disperse) mentre perfino l’avanzato Nord del Paese perde progressivamente terreno nella competizione globale. Tremonti ha qualche ragione nel ricordare che la competizione internazionale ha registrato negli ultimi anni delle discontinuità epocali, ma la risposta non può oscillare fra una totale fiducia sugli incentivi a pioggia (che piacciono alla politica per ovvie ragioni) e la riproposizione di uno Stato imprenditore. Abbiamo finora evitato, a differenza di Regno Unito e Irlanda, di nazionalizzare le banche. Stiamo allargando la missione della Cassa depositi e prestiti verso forme d’intervento azionario (equity non proprio private): si può fare, con regole di condotta e molte cautele sulle condizioni di entrata-uscita, ma sarebbe bene studiare da vicino (criticamente) l’esperienza di enti simili come la francese Caisse Dépots et Consignations e la tedesca Kreditanstalt fur Wiederaufbau, ben lontane dagli antichi ruoli delle partecipazioni statali italiane.
Il Sole 24 Ore 05.04.11